Zibba e Almalibre Come il suono dei passi sulla neve 2012 - Cantautoriale, Reggae, Folk

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Come la bancarelle etniche, uguali a se stesse dalla fine degli anni '90

"Come il suono dei passi sulla neve" di Zibba e Almalibre ha vinto ex-aequo con "Padania" degli Afterhours il Premio Tenco come miglior album del 2012. Ascolto questo disco con curiosità, perché ciò che viene accostato agli Afterhours non può che destare questo sentimento, a maggior ragione se questo nome, Zibba, lo avevo appena sentito nominare e se ciò che li accomuna è un Premio Tenco. Lo ascolto a lungo perché a volte serve tempo per capire le cose, per andare oltre le prime impressioni, perché quelle magari finiscono per essere sbagliate. O forse il tempo serve soltanto quando cerchi di convincerti che siano sbagliate. Invece, più ascolto questo disco, più mi convinco che da quelle prime impressioni faticherò a discostarmi.

L’effetto è quello dei mercatini di Natale o dei mercatini in genere. A te piacciono i mercatini e ci vai perché speri sempre di trovarci qualcosa di nuovo. I mercatini di solito hanno un tema unificante e sono itineranti, si muovono, cambiano luogo e vedono sempre facce nuove. I clienti abituali nei mercatini non esistono. E invece. Se metti da parte quelli che fanno le noccioline caramellate e quelli delle piadine, intanto che ti chiedi quanto possa essere sovraffollato il parco maiali di Ariccia, rimangono solo le bancarelle etniche. Era la fine degli anni Novanta quando per darti un tono fumavi sigarette indiane e attaccavi arazzi con gli specchietti sulle pareti di quelle stanze piene di odore di fumo di sigarette indiane che cercavi di coprire con gli incensi alla cannabis o al patchouli. Era l’inizio del Nuovo Millennio quando l’avanguardia erano gli orecchini fatti di cocco, quelli che perdevi sempre il bastoncino per infilarli. E invece sono ancora lì, li ritrovi sempre. Al mercatino di Natale, al mercatino del festival e al mercatino dei santi patroni. E ci sono gli arazzi con gli specchietti e le sigarette indiane e gli orecchini fatti di cocco. E ti guardi intorno e non vedi nessuno che possa assomigliare a uno che fuma sigarette indiane. E dici boh.

Ascolti "Come il suono dei passi sulla neve" e ti vengono in mente i mercatini. Le sonorità sono quelle della fine degli anni Novanta, quando c’era un’esplosione di tarante e di musiche etniche. Quando iniziava ad imporsi la ricerca musicale di Vinicio Capossela e il pogo/manifestazione studentesca/concerto del Primo maggio à la Modena City Ramblers e Bandabardò. Quando continuavano ad imperversare gli Africa Unite. C’è da dire che le liriche di Zibba sono curate, l’attenzione è certosina. Fin troppo. Fin troppo leziosi i ritorni all’autenticità, quella un po’ artefatta, quella del Chianti e del pane, dei poeti che alla fine sono i fornai, quella delle osterie e dello spiantato artista che non vuole essere bohemièn, ma solo spiantato artista, come andava di moda alla fine degli anni Novanta. Quella che fa sempre un po’ freddo nelle case, giusto per ribadire lo spiantatismo di cui sopra. Quella del clima circense, delle maschere e delle parolacce dette in modo noncurante. Le sonorità sono quelle lì, quelle un po’ popolari e qualche volta un po’ reggae, quelle di molti dischi italiani usciti tra il 1995 e il 2003. Sassofoni, mandolini, fisarmoniche, rullanti e grancasse da parata di paese, trombe e violini alla vecchia maniera. I pezzi più convincenti sono quelli più lenti, la title track o "Prima di partire" (nella quale troviamo il “fanculo” meno naturale della storia), perché sono i più a sé stanti, i pezzi più conclusi.

Lo stesso discorso vale per "O mae mà", in dialetto ligure, scritta durante l’alluvione dello scorso anno e cantata con Vittorio de Scalzi, anche se per forza di cose non può che profumare del De André di "Creuza de Mà". Qui infatti si sospende l’automatico paragone con i vari "Marajà" e "Ballo di San Vito" caposseliani, con cui non può esserci gara, che invece viene spontaneo ascoltando "Sei metri sotto la città" e "Asti est". O il paragone quasi pavloviano con Paolo Conte in "Anche di lunedì". Si badi bene, "Come il suono dei passi sulla neve" è un disco ben fatto, che segue perfettamente l’insieme dei canoni sopracitati. Il problema è che quei canoni, oggi, risultano anacronistici, risentono di quello stesso effetto di straniamento che ti assale quando ti ritrovi nel bel mezzo del mercatino dell’Avvento e sei circondato da pashmine, incensi alla cannabis e sigarette indiane mentre chi passeggia attorno a te ha il Moncler lucido e la Vuitton. Non c’è alcuna innovazione, nessuna cosa nuova.

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La recensione Come il suono dei passi sulla neve di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-12-10 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • pons 12 anni fa Rispondi

    Peccato che non è ascoltabile qui @fortunatodisco

  • fortunatodisco 12 anni fa Rispondi

    questo disco è bellissimo.
    un concerto al Blue Note mi ha reso chiaro il perchè...
    è musica vera, è tecnica vera...e forse si, è un po' retrò...
    abbiamo le orecchie così piene di voci anonime e stonate "chetantolintonazionenonserveaniente", abbiamo le orecchie così piene di schitarrate elementari, di suoni che "quasi era meglio la dance music anni '90"...capisco che sia più hypster, ma ogni volta che ascolto questo disco capisco perchè ho amato e amo ancora adesso De Gregori, Guccini, Vecchioni..
    e anche se Zibba non fosse particolarmente innovativo...la caratteristica principale della bellezza è la bellezza stessa, non il suo essere innovativo o il suo essere legata a uno stereotipo arbitrariamente definito moderno.
    la bellezza è fatta di proporzioni, eleganza, di parole, di tecnica e di emozioni...la data di scadenza quando si parla di questo a me non interessa.