Dopo le ultime, deludenti prove di capostipiti come i Modena City Ramblers - e, più in generale, di tutta una scena ‘combat’ sempre meno capace di rapportarsi con il quotidiano e la denuncia sociale evitando la retorica di bassa lega - le aspettative riposte negli emiliani Tupamaros erano molto alte. D’altronde, fra i gruppi nati nell’epoca post M.C.R., proprio loro sembravano essere una delle poche band in grado di ravvivare un discorso ormai logoro di clichè e luoghi comuni.
Giunge quindi al momento giusto questo “Sogni da coltivare”, album costituito da 11 tracce che segue fedelmente la cifra stilistica dei Nostri, rivelandosi assolutamente credibile nei temi affrontati e nelle musiche utilizzate. Quindi nessun cambiamento sostanziale: l’ispirazione è quella di sempre, i suoni sono quelli che conosciamo già e, va da sé, il risultato è commisurato alle aspettative. Anche perché il quintetto non sembra avere chissà quali pretese artistiche - evitando perciò di emulare improbabili Manu Chai che gia provvedono ampiamente a replicarsi - poiché sembra interessato a riproporre, senza molti fronzoli, la propria idea di canzone (personalmente ci sento molto Fossati e, quasi ovvio ribadirlo, tracce di Gang del periodo “Le radici e le ali”/“Storie d’Italia”).
E i frutti contenuti in questo quarto episodio discografico non possono che dar loro ragione fin dalla prima nota, dove Francesco Grillenzoni e compagni - coadiuvati dall’esperto Kaba Cavazzuti dietro al mixer - optano per un folk-rock leggermente più rallentato rispetto al solito, sicché i ritmi si fanno meno intensi e la proposta diventa ancora più godibile. Le liriche, stavolta anche tradotte in inglese e spagnolo nel booklet, sono forse fra gli aspetti migliori dell’opera, proprio perché il riferimento ai temi del sociale non è decodificato secondo i soliti slogan, ma raccontato attraverso storie, ognuna con sfumature diverse.
Insomma, “Sogni da coltivare” è una bella sorpresa, a patto che il genere sia di vostro gradimento.
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