Calcutta
Forse... 2012 - Lo-Fi, Pop, Garage

Forse...

Storie di provincia, un po’ malate e molto lo-fi.

Un pensiero diffuso tanto da essere diventato praticamente un dogma su cui non riuscirò mai a trovarmi d’accordo è: “eh, però architettonicamente il fascismo ha fatto grandi cose”. Parliamone. Se per “grandi” si intende fisicamente grandi, ok, ma se invece si vuole dire “belle”, allora boh, sarò io ad avere problemi con le ostentazioni marmoree di maschialità imperiale, ma ogni volta che vado all’Eur mi colgono desolazione e freddo nelle ossa, mi fa lo stesso effetto di quei paesi del Texas con un Mc-drive, una pompa di benzina e un negozio di pistole: ne colgo il fascino oscuro, la bellezza no. Ecco, Calcutta viene dalla città fascista per antonomasia, Latina, e la sua musica ha quell’appeal un po’ lugubre che si associa alle geometrie di regime piantate sulle paludi: è respingente, con quelle chitarre scarne e gli effetti sgranati e la voce poco melodiosa, ma anche attraente in un modo vagamente malato, come un pomeriggio solitario ad agosto sotto il sole su una panchina in una piazza deserta. Calcutta racconta storie minime di amori andati male, matrimoni a Pomezia, disagi adolescenziali e sesso all’odore di “Arbre magique” (dove si cita il gran maestro dei cantautori diversamente intonati e la sua “cantina buia dove noi” che “non abbiamo avuto mai”. C’è la crisi!), come un Vasco Brondi illuminato dal lattiginìo dell’umidità basso-laziale invece che dai fari di notte e dalla gigantesca scritta Coop, come un Dente di frontiera. Astenersi immuni al fascino della decadenza.

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