Fabio Viscogliosi Spazio 2003 - Pop, Alternativo

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Mah. Questo disco ha avuto un’ottima stampa, meglio dirlo subito, e certamente si tratta di un disco interessante e originale, con una idea di cantautorato pop abbastanza fuori dagli schemi. In più, l’italo-francese Fabio Viscogliosi ha dalla sua anche quella pronunciata strascinata che fa tanto Antoine per l’italiano medio, il che non guasta certo. Però, sul fatto che realizzi un’opera di cui innamorarsi follemente, permangono diversi dubbi.

Il concept di fondo è quello di un disco da “dancing spaziale”, come affermato esplicitamente dallo stesso Viscogliosi, e questo si percepisce nel senso di vuoto che permea il lavoro, evidenziato dall’uso della drum machine, che però può piacere e non piacere. Viscogliosi fa del minimalismo la sua bandiera: i testi sono ridotti al minimo, e ripetono ossessivamente poche frasi. Esempio principe quello che forse è il pezzo migliore della raccolta, “Ancora”, il cui intero testo recita così: “Noi ce ne andiamo / ma noi ci vedremo”. Il tutto ripetuto per qualche minuto. E intenzionalmente. Viscogliosi costruisce “Spazio” su pochi strumenti acustici e su una elettronica da modernariato. Le sensazioni dominanti sono malinconia e pesantezza, quella pesantezza di certi pomeriggi padani in cui il cielo si fa lattiginoso e l’aria pare così densa che par quasi di doversi far largo tra di essa. È la ‘lattiginosità’ del Battisti anni ‘80, quello della svolta elettronica, ma senza la complessità testuale e armonica che contraddistingueva il ‘dio’ di Poggio Bustone. A tratti Viscogliosi ricorda le cose meno riuscite dei Valvola, come nello strumentale “Apache”. A volte, invece, dove il testo si fa più strutturato, costruisce situazioni che ricordano le storie d’amour fou di Herbert Pagani (chi se lo ricorda?). Ancora, pare di avvertire degli echi lontani un Badly Drawn Boy malinconico e senza band, tanto scarno è il suono (“Two nuts in a shell”, “Cari angeli”). “Titan” è un divertissement strumentale che omaggia il Burt Bacharach di “What the world needs now is love” coverizzandolo e stravolgendolo con tastiere distorte.

Tra i brani che spiccano, oltre alla già citata “Ancora”, lo strumentale “Pomeriggio”, con quel piano brioso tra Chopin e Philip Glass e la drum machine che evoca le lancette di una di quelle sveglie metalliche del tempo che fu, “Sogno di fesso” si fa notare anche all’ascolto distratto. Il disco, nel suo complesso, pur crescendo negli ascolti, si presenta monotono. Probabilmente piacerà ai fans dei Perturbazione: è come una “Agosto” lunga tre quarti d’ora. Ma non a chi pensa che il pop sia quello nato sull’asse Beatles/brit-pop/Battisti (quello dei ‘70). E che cioè sia invenzione continua, fantasia affascinante, soluzione impeccabile.

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La recensione Spazio di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2003-10-08 00:00:00

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