carolina da siena Klotho 2015 - Cantautoriale, Rock, Alternativo

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Ispirazione viscerale per un folk-pop sognante e reale

Nasce tutto dalla pancia. I bambini come le canzoni di questo disco, così intenso da non riuscire a trovare il giusto livello di volume per asoltarlo: se è troppo basso ti viene da alzare, lo alzi e ti travolge da prender paura. E lo ri-abbassi. Carolina Da Siena è tutto quello che si può immaginare tranne che una santa. Urla, sussurra, piange, fa le boccacce e i versi strani, canta con la pancia, appunto e sempre con la pancia riesce ad attrarre in modo imprevedibile come il pavimento con la fetta di pane imburrata.
"Klotho" il titolo dell'album, come la mitologica figlia della notte (o di una bravata di Zeus, chi lo sa), una delle tre Moire, definita la filatrice perché filava lo stame della vita, ambizioso o forse addirittura altezzoso accostamento per un semplice lavoro musicale verrebbe da pensare, il fatto è che di semplice questo disco ha davvero ben poco. Qualunque sia la storia descritta, Carolina descrive le cose come se fosse la prima volta, come se andasse a braccio in una direzione non ben definita ma dettata esclusivamente dal cuore, messo in pancia.
Viscerali i suoi flussi di vocaboli in tutte le canzoni, i termini hanno uno per uno un peso di sostanza, delle zavorre legate strettamente che fanno di ogni testo una confessione-sfogo impossibile da ignorare. Fottersene della metrica ed alzare la voce a piacimento, così in "Casa Mia" e "Piante da Giardino" si sbotta per le ipocrisie mal celate durante i pasti e la staticità mentale di chi rimane a guardare mentre gli ignoranti (o stranieri) arrivano ad invadere tanto i paesi quanto le menti delle masse.
Folk-rock grezzo e scarno quello di "Klotho", la vocalità sballotta tra una Carmen Consoli con l'hangover, una Gianna Nannini più assennata e poetica e una Maria Antonietta coi problemi dei grandi, la bellezza del canto di Carolina da Siena sta tutta nell'irregolarità e imperfezione misurata (e voluta), nella cifra stilistica da canto popolare arrangiato suonando i mobili di casa. Tra le pieghe enormi ed abrase di questo disco spuntano due vere e proprie poesie sofferenti e vere. La prima, "Vorrei che tu (sentissi questa canzone e capissi che sto parlando a te)", è registrata come se fosse cantata in spiaggia, in sottofondo la risacca del mare incessante e solo voce e chitarra a domandarsi se la luna ha ancora ispirazione da dare o oramai prostituita in troppi versi, ha perduto il suo valore di musa "se questa notte mi rendesse cieca, domani svegliarmi non mi spaventerebbe più, e fantasticare su quello che c'è fuori non è, non è mai un granché, se tu sei dentro me, è questione di spazio, io me lo ripeto ormai da tempo chiusa qui dentro mi illudo e mi nutro di balle, inconsistenti ma contorte, figlie di una avversa sorte, figlie distorte, in questo treno che va, io vorrei solo toccarti luna". La seconda, "Forse no" parla dell'uomo normale, col peso di tutto addosso, la cui forza risiede nel riuscire comunque ad avere sogni vividi. La pancia dunque.
Quante cose ci stanno nella pancia. Sofferenza, intensità malinconica, battiti sordi, grattugia per le coscienze, lividi procurati in battaglie personali contro nemici d'aria, ci stanno anche lamenti gridati col cuscino sulla faccia, carne cruda e bile, sogni possibili e scricchiolii nel legno. Tutto nella pancia e in questo bel disco.

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La recensione Klotho di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-03-16 00:00:00

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