Appino
Grande Raccordo Animale 2015 - Rock, Pop

Grande Raccordo Animale
25/05/2015 - 10:20 Scritto da Marco Villa

Un album completo e complesso come “Grande Raccordo Animale” è esattamente il tipo di disco che può firmare solo uno che suona e scrive canzoni da vent’anni e che in questo, è sempre bene ricordarlo, rimane uno dei migliori in circolazione.

Quando ha pubblicato il suo primo disco solista, Appino veniva da quasi vent’anni con gli Zen Circus e la necessità principale era quella di staccarsi dal suono della sua band. La strada scelta era stata duplice: sul versante dei testi aveva buttato fuori le parole più personali e intime che avesse mai scritto, mentre le musiche erano andate verso un suono violento, con il fondamentale contributo di Giulio Ragno Favero alla produzione. Due anni dopo, Appino ha di nuovo cambiato, perché “Grande Raccordo Animale” va in una direzione differente e molto coraggiosa: quella di un album pop.

No, non è una sparata: per uno come Appino, con la sua storia, la cosa più difficile da fare è trovare un suono e uno stile in grado di farlo conoscere a un nuovo pubblico, senza però lasciare deluso chi lo segue da anni. Lo dice lui stesso con ironia in “Tropico del Cancro”, il pezzo che chiude l’album: “non farsi mai e poi mai trovare / dove tutti ti vogliono aspettare / ma se poi voi non mi trovate / ai miei concerti chi ci verrà?”

Per cercare un equilibrio così difficile, Appino ha chiamato come produttore Paolo Baldini e con lui è riuscito a realizzare un disco maturo e pieno. In apparenza, la novità più evidente sembra la deviazione verso il reggae (come naturale che sia, visto il coinvolgimento di Baldini, ex Africa Unite, da due album produttore dei Tre Allegri Ragazzi Morti), ma in realtà l’aspetto più importante dell’album è la capacità di introdurre questo elemento senza perdere l’anima Zen Circus (“Linea guida generale”), tenendo alcuni brani più legati all’esordio (“Galassia”) e aprendo a canzoni che in tutto il mondo verrebbero semplicemente definite delle ballatone rock (“Rockstar”, “Buon anno”), ma che qui da noi finiscono per essere classificate come “pezzi alla Vasco Rossi”. Che è una roba strana, ma va così.

Tutto questo sposta gli equilibri verso il pop, ma non aspettatevi un album leggero o senza pensieri: le canzoni di “Grande raccordo animale” parlano sempre di insicurezze e ansie, di persone perse che sperano di trovare prima o poi una Itaca a cui tornare (“Ulisse”) o in cerca di una fuga da qualsiasi cosa (“Nabuco Donosor”), anche da una vita che non è stata da “Rockstar” e si è risolta nel non avere in tasca nemmeno una manciata di euro per pagarsi una birra. Rispetto a “Il Testamento”, mancano i pezzi in grado di far attorcigliare lo stomaco: Appino sembra aver fatto un passo di lato, preferendo osservare e raccontare quello che vede, con grandi dosi di disincanto, ma sempre rifiutando qualsiasi forma di giudizio. In “Grande Raccordo Animale”, la voce di Appino emerge soprattutto in “New York” (“se fossi una città sarei questo paesone / dove abito con ambizione il mio rione”) e in “Tropico del Cancro”, una sorta di riedizione cinquant’anni dopo de “Il sociale e l’antisociale” di Guccini.

In apparenza Appino sembrerebbe essere dove non ci aspetteremmo di trovarlo, ma a conti fatti si tratta di un errore di prospettiva, perché un album completo e complesso come “Grande Raccordo Animale” è esattamente il tipo di disco che può firmare solo uno che suona e scrive canzoni da vent’anni e che in questo, è sempre bene ricordarlo, rimane uno dei migliori in circolazione.

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