Massimo Zamboni Sorella sconfitta 2004 - Cantautoriale, Rock, Alternativo

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“Grazie sorella sconfitta…”. Queste le prime parole (pronunciate) che inaugurano la carriera solista di Massimo Zamboni.

Fermatevi un attimo e rifletteteci: pensate a tutto ciò che si sa per certo, ovvero che la storia di un gruppo rock, il più significativo degli anni novanta (si parla di C.S.I., ovviamente, per i più distratti) si è disintegrata nel momento di picco massimo, a contatto con la stratosfera. Pensate a tutto quello che non si sa, ai perché dell’implosione che ha coinvolto tutte le attività riconducibili a quel ricircolo, al movimento (inteso come forza motrice) che il gruppo e il Consorzio Produttori Indipendenti avevano innescato - il cui raggio si sperava sempre in espansione e che nel giro di poco non esisteva più. Pensate a tutto ciò che si presuppone., ovvero alla notizia che tutto è finito: finito il rapporto con Ferretti, che non c’era più possibilità di continuare. Il resto, tutto immaginato, tutto con discrezione. Poi veniamo ai quattro anni che ci separano dalla data odierna. Da una parte una ‘svolta silenziosa’ (quella dei P.G.R.), dall’altra il ‘silenzio della svolta’.

Ebbene, immagino che per arrivare a una frase come quella d’apertura sia necessaria una salita, da scalare e guardare dall’alto in basso. Questo non significa che per il Nostro si sia trasformata in un piano inclinato, ma di sicuro che ha finalmente avuto il coraggio di voltarsi. Massimo Zamboni è così voluto tornare: silenzioso, riflessivo e risoluto. Quattro voci femminili come delega di quattro diversi aspetti di una stessa sensibilità, e la voce (fino ad ora ignota) di Zamboni che perlopiù rimane a respirare sopra a una chitarra, come ai bei tempi. Eccetto che nei casi di “Blu di Prussia” e “Schiava dell’aria”, dove interpreta a ritmo di narrazione (o se preferite alla Emidio Clementi), contenuti che richiamano quelli del suo romanzo risalente ad un annetto fa (“Emilia parabolica”).

“Santa marea elettrica”, uno strumentale di chitarra che emerge dalle nebbie e che riflette la pratica recente fatta con le colonne sonore, a delimitare il seminato, apre le musiche e le conclude. Il primo ospite ad apparire in ordine di tracce è Lalli, l’unica voce in Italia in grado di esprimere la forza che nasce nel dolore e che - quindi - sposa perfettamente il pathos di certe liriche centrali come la title-track (alla quale ovviamente appartiene la sopraccitata frase) e il travaglio interno dell’ipersensibilità all’esterno espressa in “Da solo”. Si ripresenta poi in una tormentata “Dolorama”, di un’inquietudine quasi sacra nella quale la tempesta interiore si fa massima, per poi - due tracce dopo - lasciarsi contemplare in lontananza con” Schiava dell’aria”, messa in conclusione, i cui toni aprono alla speranza attesa.

Metà del respiro, o meglio, dell’abbraccio di queste ultime due tracce sono merito di quello che è stato definito l’elemento destabilizzante del progetto: Marina Parente. Solo un accostamento semantico o letterale, avrebbe pensato ad un soprano nell’immaginare qualcosa che fosse al di sopra (delle righe, ovviamente). Sinceramente all’inizio ho trovato difficoltà ‘digestive’ nell’accettare questo genere di novità; poi, dopo una serie di ascolti, non si riesce ad immaginare queste canzoni senza. Il caso più estremo in cui viene impiegata è senza dubbio “Ultimo volo America”, una specie di ballata electro-punk (se così si può dire) in compagnia di una scatenatissima Nada. La meravigliosa cantante livornese prosegue nella strada di un rinnovamento continuo che percorre attraverso la strada trasversale delle collaborazioni (Spinetti e Mesolella degli Avion Travel e Cesare Basile, tanto per citarne un paio) e recita il ruolo di mattatrice di questo disco, lasciando non solo un’impronta fortissima ma recitando con una forza interiore di cui sembra avere riserve interminabili. La vediamo interpretare la tiratissima “Su di giri”, che ci riporta indietro di una quindicina d’anni (quando l’acronimo era CCCP, con tanto di fantasma di Ferretti nell’interpretazione).e nel singolo del disco (“Miccia prende fuoco”), un pezzo che fa la differenza, nella media generale. Un po’ più discreta, invece, quella della giovanissima Fiamma, beata ingenuità a contrappeso di tanta energia tirata in ballo da voci più ‘adulte’, che però, dopo le tinte pastello di Kral, dimostra una certa personalità nell’interpretare, in modo appena bjorkiano, un’ispirata “Pied beauty” (testo in inglese tratto da Gerald Manley Hopkins).

All’intima domanda (ovvero quella che si chiede che cosa ci si debba attendere) che verrà in mente a chi compra il disco ripensando a tutto quanto detto finora, l’opera risponde con la ricetta di una nostalgia terapeutica, preparata all'unico scopo di non averne più.

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La recensione Sorella sconfitta di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-04-16 00:00:00

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