Mandara Alatul 2004 - Psichedelia, Etnico, Elettronica

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Il panorama della world music italiana vive da sempre in un limbo di contraddizioni dalla quale difficilmente se ne viene fuori. Basta suonare strumenti poco convenzionali o - se volete - “esotici”, con uniti un cantato in dialetto, per “appartenere” ad una scena che, in effetti, non esiste nella realtà. Forse oggi che la Ethnoworld ha messo sul mercato il secondo album dei Mandara, qualcosa cambia.

“Alatul” è un cd che spiazza sin dalla copertina che raffigura un’opera dell’artista calabrese Andrea Grosso Ciponte: una donna nuda col chador e gli stivali neri, per metà islamica e metà occidentale, che sintetizza al meglio l’anima di questo album. Un disco multietnico nel vero senso della parola, perché profondamente intriso di cultura orientale ed occidentale. Tradizionale e futurista, acustica e digitalizzata allo stesso tempo, attraversata dallo spirito libero dei tantissimi musicisti coinvolti in questo che è un progetto aperto più che una band vera e propria. E probabilmente l’idea vincente di Gennaro De Rosa, fulcro del Mandara project, è proprio questa: aprirsi non solo ai suoni del mondo, ma confrontarsi di continuo con musicisti del presente e musiche del passato.

Non è un mistero che il kraut rock dei Can, omaggiati da una orientaleggiante versione/visione di “Spoon”, sia un’influenza decisiva nella sintesi del progetto che viene attraversata tanto dalla tradizione di musicisti come Arnaldo Vacca quanto dalla cultura mittleuropea degli Embryo, per finire alle musiche orientali kurdo, irachene ed arabe studiate nei viaggi intrapresi nel corso degli anni. “Alatul”, manipolato sapientemente in fase di missaggio dalle mani di Marco Messina, si presenta con la nenia orientaleggiante di Vacca che spinge subito l’ascoltatore nei suk del nord africa, stravolge positivamente un classico degli Embryo come “Kurdistan”, attraversa la forma canzone con Peppe Voltarelli che spinge “ Balla Sola” nei territori del new folk italiano tanto caro al Parto delle Nuvole Pesanti, distrugge il concetto di tarantella come nella superba “S.O.S. 106”. Ma il continuo contrasto tra la tradizione orientale e l’elettronica più moderna vive di rimandi che spingono l’ascoltatore tanto nel club londinese più alla moda (“Über Der Tanz”) quanto nell’oriente più remoto (“Mandara Jingshén”) sfociando alla fine nei territori della psichedelica più pura, come nell’ipnotica “Kalpa”.

Un mondo di suoni è racchiuso in questo splendido album che è “Alatul” che si apre ed avvolge l’ascoltatore, nota dopo nota, trasportando realmente in mondi solo all’apparenza lontani. Un disco per menti realmente aperte.

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La recensione Alatul di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-08-22 00:00:00

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