BUCOSSI alaveda 2016 - Cantautoriale, Lo-Fi, Acustico

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Quello di Alaveda è un gran disco, è poesia malinconica da ascoltare mille volte lasciandosi commuovere.

Alaveda lo avevamo recensito un po’ di tempo fa per il suo singolo, “Più niente”, che già lasciava presagire un gran bene. Poi finalmente a gennaio di quest’anno ha pubblicato il suo primo disco, omonimo.
La strada è la stessa del singolo: dettagli, piccole cose, vita quotidiana, il tutto illuminato da una luce di poesia come non se ne vede spesso nella musica italiana, sincera e malinconica.
I brani (solo dieci) gridano, sussurrando con una voce delicata e suoni perlopiù acustici, di essere ascoltati, assorbiti e vissuti. Rappresentano i momenti della vita, l’esplodere dei sentimenti, intensi e malinconici.
Comincia tutto con lo sguardo fisso sull’armonia della tua schiena, dove “disegno i miei stati d’animo”, peccato che “è soltanto un altro giorno che tu non ricorderai”. È il freddo che senti dentro quando hai perso qualcosa. E non serve a niente coprirsi, “perché so soltanto che non provo più neanche piacere”: è il freddo che avvolge quando ci si sente vuoti, è il peso della malinconia (“Sulla tua schiena”).
“La strada di casa” ricorda tanto lo stile dei Non Voglio Che Clara, una delle migliori realtà italiane in quanto a capacità di narrare emozioni. Lo stesso vale per Alaveda, che canta “conosco la strada di casa / conosco il terrore / di chi ha barattato il sollievo con la prigionia / ti ho vista posare le chiavi / scordare il mio nome / sarà come smettere un vizio senza nostalgia”; “Nuovi disastri” è da imparare a memoria: l’armonia della voce con la musica, con il piano e con gli arpeggi di chitarra, è perfetta. “E non chiedermi perché il passato non cambia”, anche quando vorrei cambiarlo con tutte le mie forze, “sembra tutto inutile”, ed è finita così, perché il desiderio è eternamente insoddisfatto. E allora “conta fino a tre” prima di agire, perché quel che è fatto, poi, rimarrà com’è stato. E ne uscirai certamente sconfitto.
Sensazioni di sospensione e i battiti del cuore aumentano pensando all’irrimediabilità del tempo che “non dà scampo al vuoto delle tue malinconie”. E allora “lascia svanire il rumore / posso sentirne il dolore” (“Rettilinei”, uno spettacolo che si arricchisce di elettronici arabeschi). Ma non si tratta di rassegnazione, ché “non credere a niente può solo annientarci”. È solo che “qui tra la luna e i falò le stelle mi asciugano gli occhi” e tu invece “mi parli di strani sogni e neanche mi tocchi”, è che “nella vita degli altri tu sai solo sprecarti” (“La vita degli altri”, un piccolo capolavoro dove l’elettronica aumenta, senza abusarne).
“Prospettive di allegria” dovrebbe far ben sperare, invece è la perdita di te, che “ti vedo parlare lontana da Roma di nuove prospettive di allegria”, tragicamente, senza di me. Perché quell’attimo prima di andar via ormai è passato e ormai siamo distanti, ma tranquilla, “so come sparire”. “Più niente” è quello che resta dopo la perdita: nulla. Ma continuerò a “sognar quei baci che non mi darai / e svegliarmi dopo un’ora più sola che mai / per sentirti che ti piace contare i miei nei / e poi non dirmi più niente”.
Vorrei svegliarmi da questa malinconia e rivedere il mondo illuminato dalla luce della primavera, ma è “l’imperfezione della gioia che non mi fa dimenticare quello che non sono mai stato, e che non ho saputo fare le giuste scelte”, e mi logoro ancora nel rimpianto, ma tu “svegliami quando sarà finito l’inverno”, ché forse riuscirò a reagire (“Svegliami”).
“Non chiedere alla polvere” riprende e rovescia il tormento passionale della storia d’amore del romanzo “Chiedi alla polvere”. Ma qui i protagonisti siamo io e te e questa è la vita, questa è la nostra storia che non avrà mai un futuro, perché “dietro di te le mie più dolci premure diventano polvere” e, sai, fa così male che “a volte guardi in aria per non guardare me”. Ma forse nella polvere della nostra relazione troveremo (o almeno troverò) le risposte che cerchiamo, lì dove restano impressi in qualche modo i ricordi e le esperienze, che sono in fondo anche le radici del futuro e le scorie dei sentimenti.

È un disco da ascoltare mille volte, quello di Alaveda, lasciandosi commuovere, perché la malinconia è ricchezza, perché questa è poesia, perché in ogni brano scavando più a fondo si possono trovare nuovi stimoli e citazioni. Quello di Alaveda è un gran disco.

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La recensione alaveda di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-04-09 00:00:00

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