Afterhours
Folfiri o Folfox 2016 - Rock

Folfiri o Folfox

Un'opera deflagrante e intensa, per scalare la sofferenza, raggiungerne la cima e scoprire nuovi modi per sentirsi vivo.

”Tu giurami che noi non moriremo mai” (“Grande”)

Sarebbe bello credere, credere e basta, senza doversi scontrare con la realtà: all’amore e a Dio, alle relazioni profondissime che non temono caducità, alla vita eterna ché fino a quando ci siamo la morte, in fondo, non sappiamo cos’è. Ma ciò che resta in cui credere, attraversando le pieghe più increspate e meno nitide dell’esistenza, inciampando fragorosamente in dolori che ti costringono a cambiare la strada che ti sembrava così dritta e sicura, siamo forse soltanto noi: un universo immenso in un corpo piccolo, un milione di possibilità affogate in una perenne indecisione, la forza e la paura che si mescolano per riaccendere certe luci che sembravano spente.

Folfiri o Folfox” è la celebrazione del momento esatto in cui qualcosa si spezza, del rumore che fa e della spinta che provoca, prima dentro ciascuno, poi verso il mondo: scalare la sofferenza per raggiungerne la cima e scoprire nuovi orizzonti, nuvole più bianche, azzurri più intensi, e infiniti modi per sentirsi di nuovo vivi. Che siano le nostre scelte, il destino o qualcuno che gioca a dadi coi nostri sogni non conta: siamo qui, e per il tempo in cui ci siamo vogliamo credere a ogni promessa, alla sua sincera intenzione nell’istante in cui viene pronunciata che è lo stesso in cui capiamo che non potrà essere mantenuta. Folfiri e Folfox sono il nome di due cicli chemioterapici, ci troviamo subito senza inutili giri di parole davanti al cancro, e tutto parte dalla scomparsa del padre di Manuel Agnelli, passando per altri lutti che hanno colpito i membri della band; ma nonostante questo, il denso, doppio album che nasce dalla malattia, diventa un passo dopo l’altro un’esplosione di vita, la carta da giocare per riconoscersi in una speranza, la prova che ci siamo ancora e possiamo essere felici, o almeno tentare di esserlo.

L’intensità di questo disco è qualcosa che si fa fatica a descrivere: un equilibrio perfetto tra rock, brani dominati dalla chitarra acustica, contaminazioni sperimentali, e due perle dal sapore pop (“Non voglio ritrovare il tuo nome” e “Se io fossi il giudice”) a completare un quadro fatto di pennellate nette e cura dei dettagli, di slanci scuri e sfumature vitree, e tutto è funzionale al resto, e ogni traccia poggia sull’altra quasi che ne avesse bisogno e ne fosse al tempo il sostegno. “Grande” è il punto di partenza, l’effettiva base che permette all’album di crescere e diventare meraviglia: la voce di Agnelli è uno squarcio perpetuo, la tensione emotiva sale con gli strumenti che si innestano, tutti insieme, su un tappeto fatto fino a un secondo prima di chitarre e battiti fortissimi, a simulare l’abbraccio necessario nell’apice dell commozione, la bellezza che esplode quando tutto sembra incomprensibile, come il sole che scoppia dietro quella cima, e che scoppierà comunque, che il nostro dolore ci sia o meno. Dalla dolcezza soffusa di pianoforte e violini, ora lievi e un attimo dopo distorti, di “L’odore della giacca di mio padre”, dove sembra di essere nel pieno di un discorso introspettivo davanti allo specchio, alla dolcezza dilatata tra corde di leggerezza acustica di “Lasciati ingannare (una volta ancora)” dove tutto invece sembra aprirsi per lasciare entrare aria nuova, e aria ancora più fresca con “Oggi” dove quel ”Ti direi che oggi può guarire tutto, ti direi che oggi è dove sei, e che lì il tuo male ora non ci troverà mai” è la promessa essenziale, è aggrapparsi a noi perché non c’è null’altro che sia più forte.

Il classico oceano di chitarre elettrificate in stile Afterhours si spalanca in “Ti cambia il sapore”, dove di fronte al dubbio sull’esistenza di un essere superiore, di una trama già definita, l’imperativo è semplicemente uno: ”Devi solo vivere”; stesso oceano distorto in “Qualche tipo di grandezza”, ancor più distorto in “Fa male solo la prima volta”, mentre la ballata rock intrisa di umori contrastanti “Né pani né pesci” riporta molto alle atmosfere di “Quello che non c’è”. In maniera geometrica si snocciolano intarsi di pura sperimentazione, la litania mefistofelica di “San Miguel” che è un gioco a due tra Agnelli e Iriondo, le contorsioni strumentali e sovversive di “Cetuximab”, la teatralità noise di “Folfiri o Folfox”, e a far da contrappeso gli slanci lineari e puliti di quelle che ho già definito le perle dell’album: ”Non voglio ritrovare il tuo nome” e “Se io fossi il giudice”, destinate a diventare classici insieme a “Grande”. E proprio la canzone che chiude il disco, contiene le parole che sono essenza dell’intero percorso: ”Ognuno ha un modo di abbracciare il mondo, il modo che ho è soffrire fino in fondo”, e poi quel ‘libero’ ripetuto tante volte da diventare la necessaria chiave di lettura per affrontare, attraversare e consumare lentamente il dolore. La libertà che è un concetto di base in tutto questo lavoro, un paio d’ali capaci di farci raggiungere quella cima molto più in fretta.

Con una formazione nuova che vede Stefano Pilia alla chitarra e Fabio Rondanini alla batteria, gli Afterhours realizzano un’opera deflagrante, un vortice emozionale fatto di salite impervie, brusche svolte e pause di pura poesia, per poi scendere a gran velocità verso il sole che scoppia, e nonostante la malattia, il senso di perdita, le battaglie dai risultati incerti, restiamo noi, ”scoprendo che il dolore non era la destinazione vera, che tutto è folle ormai, ma in questo sogno qui noi non moriamo più, e non moriremo mai”.

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