The Wanderer Born In A Room 2016 - Cantautoriale, Indie, Folk

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The Wanderer tiene a precisare che il titolo del disco si riferisce al luogo dove sono nati questi sette pezzi. Eppure è strano come ascoltandoli, questi brani ti portino inevitabilmente da qualche altra parte. Sempre.

Quelle chitarre acustiche. Quel vibrato. Quegli accordi in minore piazzati con sapiente maestria per creare sussulti emotivi. “Born In A Room” è un ottimo esordio per uno come The Wanderer. Il nostro eroe viene dai tumultuosi sobborghi punk dei SunCity Falls, band di cui prima era cantante e chitarrista, ma adesso ha deciso di viaggiare verso le praterie più serene e concilianti del folk. Pur non abbandonando un immaginario cosmopolita, come testimoniato dalla copertina del disco che raffigura uno skyline metropolitano, il cantautore vicentino abbandona fuzz e distorsioni per rifugiarsi nell’alcova della chitarra acustica, sfornando un ottimo album.

Per intenderci, ci troviamo nei territori di Paolo Nutini, John Mayer e Mumford & Sons, quindi sempre ad un passo da quella “piacioneria” smielata che torna sempre utile per rimorchiare ai falò. Eppure The Wanderer non cade quasi mai nel tranello (eccezion fatta per “Cadillac”, pezzo dal giro troppo banale e che si salva in corner solo per l’interessante passaggio dalla strofa al ritornello) e si tiene sempre a debita distanza dal confine che separa l’originalità dallo scontato. A volte sembra avere anche un occhio di riguardo per la tradizione: provate a immaginare “Feather In The Wind” con la voce grattata di John Fogerty, ed ecco che avreste un evergreen mondiale alla "Proud Mary". Nulla da togliere alla voce di Wanderer, che, anzi, è sempre calda e avvolgente, merito anche di una produzione che mostra solo punti forti.
“Glimmer” è un pezzo di stampo tipicamente mumfordiano, così come “If You’Re Not Here”, mentre “All My Faith In You” porta il folk di The Wanderer verso i territori più grintosi, con un ritornello evocativo ed emozionante. A chiudere il disco troviamo la nitida sacralità di “Brand New Day”, momento di riflessione acustico che non sfigurerebbe sul finale di qualche film del Sundance e che sembra riportare tutto ad una rasserenante calma dopo la tempesta.

In definitiva, “Born In A Room” è prova di una dimensione autoriale che, certo, ha i suoi punti deboli, ma che si trova anche sulla via di una maturazione imminente e definitiva. L’autore tiene a precisare che il titolo del disco si riferisce al luogo dove sono nati questi sette pezzi. Eppure è strano come ascoltandoli, questi brani ti portino inevitabilmente da qualche altra parte. Sempre.

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La recensione Born In A Room di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-12-14 10:00:00

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