Snakioplatz
The greatest spritz 2005 - Strumentale, Sperimentale, Rock

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1. Non me ne vogliano i nostri gentili lettori ma nonostante la mia buona volontà non sono mai riuscito a ben focalizzare la ragione per la quale molte giovani band scelgono oggi di suonare musica strumentale – in ambito rock, s’intende – infischiandosene completamente di dispensare messaggi (tanto cari alle nuove generazioni di rockers) attraverso intrecci lirici più o meno articolati, siano essi impregnati di politica, amore, religione, rabbia o altro. In questa scelta sembra quasi celarsi un’ambivalenza artistico/comportamentale in continua oscillazione tra la paura di scrivere testi non all’altezza e l’egoismo iper-intellettuale di stampo OscarWildiano di suonare solo per chi può apprezzare, senza bisogno di sprecare inutili parole a contorno quando la musica da sola basta e avanza.

Gli Snakioplatz da Mestre sembrano estremizzare il secondo approccio e, nel bene e nel male, mi lasciano un po’ perplesso nel momento in cui scelgono di destrutturare e trasfigurare per partito preso ogni nota che passi nei loro paraggi seppellendo anche il più flebile filo logico – qualora ne avessero voluto uno – in quello che avrebbe dovuto essere, nella loro ottica, uno concept album d’esordio… e i concept-album un filo logico devono pur averlo, no? Per lo meno quei nomi tanto cari ai tre ragazzi veneti – come Primus, Mr Bungle, F.Zappa – riuscivano a dare una corposa omogeneità di suoni anche alla più stramba delle composizioni mentre qui siamo in preda alle più epilettiche delle elucubrazioni musicali, seppur onorevolmente immortalate da una coraggiosissima presa diretta che, a sua volta, diciamolo pure, presuppone una perizia tecnica non comune. Come schizzi frenetici di vernice lanciati sopra un muro metropolitano – così, per il gusto di sporcare – gli Snakioplatz alternano frustate di trapanante psichedelia con allucinogene impennate blues e stilettate jazz-core, scarnificando il funky e procreando – nel contempo – suite-metalprogressive monocellulari; sodomizzano gli strumenti e la stessa idea di armonia che ad essi associa, ingenuamente, l’immaginario collettivo forse immemore di un glorioso passato che ha santificato la non-melodia e beatificato la schizofrenia tecnica, partorendo quello che poi sarebbe diventato il Crossover (latamente inteso).

Per quanto sia poco assimilabile un lavoro del genere auguro ai tre giovani camaleontici musicisti d’oltrepassare il puro esercizio di stile e conferire al materiale in loro possesso un valore aggiunto visibile, magari scovando un coraggioso produttore e un altrettanto bislacco paroliere, al fine d’assecondare degnamente la piacevole bizzarria musicale.

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