Fabrizio Ganugi è un cantautore classe 1988, è "uno degli ultimi poeti improvvisatori in ottava rima", è un cuoco e forse per questo è così bravo a sposare gli ingredienti. Il primo strumento dell'album a entrare in scena è la voce, un po' come l'ha utilizzata Lucio Dalla quando ha vocalizzato nella storica sigla Rai "Lunedì Film". E la voce di Ganugi è molto bella, vibra sincera come una corda tesa all'aperto nella primavera toscana, con sopra i panni stesi tra Calzini e palloncini, mentre un bel sole caldo illumina un prato di Prato, dove tutt'intorno bambini giocano e coppie amoreggiano - cose che tra l'altro forse in questo periodo d'emergenza non si possono fare ma che è sempre bello sognare grazie a un brano (o un videoclip) ben fatto, anzi forse dovrebbe essere proprio questa la forza profonda della musica cosiddetta leggera, ma ora non divaghiamo.
Ne La paura, intensa e ispirata, la voce di Ganugi aggiunge il colore del graffio e qualche nota verso il cielo, danzando sui tasti bianconeri del pianoforte al ritmo delle percussioni. Il secondo strumento dopo il canto è la chitarra acustica di Precariato e Samba, bastano pochi secondi e casa tua diventa subito un'immensa spiaggia di sabbia brasiliana, anzi una Copacabana italiana ironica, malinconica e "flessibile": "Dicono che la saudade l'hanno inventata a Rio ma con un po' di vino ho visto fa la samba anche a i' mi' zio, in quelle domeniche che non ci sono più in cui la mi' nonna cucinava anche per Gesù...". L'atmosfera si fa poi jazzata e nostalgica, sempre filtrata attraverso uno sguardo disincantato sul mondo e sull'amore fra Trump, Kim Jong-Un, Gomorra e Robin Hood che "è fuggito dalla sua foresta e ora vive a Milano, perché si è innamorato di una fashion blogger e infine corre tra le vetrine e tira frecce sul web". D'altra parte ci sono domande che pungono e non si sa da dove vengono, proprio come Le zanzare, le parole e le paure. Arriva infine la poesia de La Mongolfiera fatta con i sacchi della spesa.
I testi del disco sono belli, sono giusti, sono al contempo leggeri e profondi come si diceva, sono sinceri anche quelli come il canto: "Tu mi amavi perché mi strizzavi i brufoli, perché a far l'amore avevo i crampi ai muscoli..." (Calzini e palloncini). Oltre alla chitarra, alle percussioni e alla voce, Fabrizio Ganugi "suona" anche mandolino, batteria, flauti e saz turco riuscendo a far convivere passato e presente della musica, richiamando la tradizione della canzone d'autore italiana ma tracciando anche una possibile nuova strada per percorrere la contemporaneità. Ci vorrebbe più Ganugi per tutti.
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