Partiamo dalla fine.
Piano, voce, emozione. Questa è una canzone d’amore per antonomasia, da scienze delle costruzioni che ha seguito ogni regola fondamentale e che, si spera, nessun evento naturale potrà mai buttare giù. Davvero bella.
L’architettura dell’Ep però sembra non reggere nella sua totalità. Siamo di fronte ad un pop-rock direi stereotipato, lontano da uno stile distintivo, da una forma globale d’intenti.
Le prime quattro tracce tentennano tra rock e poca fantasia, come in una playlist radiofonica di fine anni ’80, tirata su da richieste telefoniche di massaie annoiate e segretarie nullafacenti. Simpatica “That Bitch Who Refused My Song”, a metà strada tra Haircut 100 e Prefab Sprout, peccato per il titolo: le femministe estremiste radicali potrebbero ribattezzarla "That Cur Who Played His Song". Cerchiamo di trovare un senso allora, un punto di riferimento, aggrappiamoci agli specchi: muoviamoci dai Van Halen, alle Indigo Girls, ai Vanilla Fudge e ancora e ancora.
Non che sia male avere tante ispirazioni, ma non una per ogni canzone, come esercitazioni di tiro al bersaglio dove non si fa mai centro. Sassolini bianchi o bussola, tocca trovare un via maestra.
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La recensione The Game di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-03-19 00:00:00
COMMENTI (1)
:[:[:[però i musicisti sono TROPPO fichi!!!!:=