Mapuche Non chiamarli mostri 2024 - Cantautoriale, Indie

Disco della settimana Non chiamarli mostri precedente precedente

Un disco lo fi che è un insieme di cortocircuiti solipsistici, impacchettati con follia punk e lacrime sulla punta degli occhi

Quelli che vedono il lo-fi come una condizione di partenza per mancanza di mezzi; quelli che sembrano sempre lo-fi perché non riescono a comunicare; quelli che - come Mapuche - vivono una vita artistica lo-fi a prescindere dalle circostanze, a prescindere dall'età, perché il lo-fi è uno stato dell'anima, un modo d'essere caleidoscopico che può accadere in cento forme diverse.

Non chiamarli mostri è il quarto disco di Mapuche ed è un album lo-fi nel senso che ad essere di "bassa qualità" è la serratura, facilmente scassinabile, che ci divide dal cuore di Enrico Lanza, alle prese con le contorsioni che lo attanagliano nella vita quotidiana, ma non solo. Una manciata di pezzi che vede il grande lavoro dietro le quinte di Dino Fumaretto, e che per forza di cose assume un carattere pungente e severo nel sound, impertinente e sfacciato nella resa totale della forma canzone. Un'impertinenza per niente adolescenziale, a riprova che dai cliché si può scappare sempre, basta avere la giusta dose di coraggio, oppure la voce di Mapuche, un insetto che si infila nelle orecchie, e vola nel corpi delle persone.

Tutto sembra librarsi, in piedi sul tappeto di Aladino, su un paesaggio mentale e surrealista, ma per nulla astratto. Le psicosi e le ansie di Lanza sono concrete, sono immagini reali e molto chiare, passano attraverso simbolismi e figure totalmente accessibili, e forse per questo così sporche e grigie. "Non chiamarli mostri, loro non ti mentono". Sembra così semplice, e invece fa paura da morire, accettare le voci che ci creiamo nella testa, a cui non rispondiamo, a cui diamo nomi irreali.

Non chiamarli mostri è il disco di due persone che hanno un grande gusto, e non è una cosa banale, perché la scelta dei suoni, la palette stilistica, denotano la forza con cui Fumaretto e Mapuche hanno seguito una tendenza stilistica, senza alcun compromesso. Che si tratti di chitarre distorte, di pianoforti elettrici, di svolazzi psichedelici o di tenerezze cantautorali, il grigiore - lo stesso che tinge la splendida cover dell'album - non abbandona mai le orecchie di chi ascolta.

A tratti sembra quasi che Enrico voglia tenerci sulla soglia, non farci entrare nel cuore delle domande che lo attanagliano, perché le strutture dei brani sono un gorgo ripetitivo e a tratti lancinante, che si ripete, aggrovigliandosi su se stesso, e spesso rompe le regole dell'armonia, facendo prevalere ronzii e rumori elettronici. Lucertola è un brano tanto incomprensibile quanto affascinante, perché sembra il parto di un computer che soffre e che cerca di urlare, inchiodato in una ricerca che non può fare. 

Ma alla fine ogni dubbio viene risolto, e ci ritroviamo catapultati definitivamente dentro il suono della mente di Mapuche, le domande vengono sciolte in un brano-raccoglitore, Erlebnis, dove il nostro fa un punto della situazione, danzando sulle ultime cartucce che Dino Fumaretto gli ha messo a disposizione dal suo baule di tesori. Il finale è il sunto, prezioso e raffinato, di un disco che è un insieme di cortocircuiti solipsistici impacchettati come solo il gran sommelier del lo-fi potrebbe fare, con follia punk e lacrime sulla punta degli occhi.

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La recensione Non chiamarli mostri di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2024-03-08 00:00:00

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