Un disco pop che suona bene, resta in testa e riesce persino a non essere per niente scontato: sembra incredibile ma è tutto vero.
Quando ci si approccia all’ascolto di Omniverso, il disco d’esordio di ARIA – al secolo Susanna Ronchi – si ha sin da subito la sensazione di avere davanti due facce della stessa medaglia. Parti tra loro complementari, come le metà simmetriche di una mela destinate a ricongiungersi.
Prodotto e distribuito da Fe-Lab Music Productions, il primo album della musicista milanese classe ’94 è (guarda caso) la somma di due EP, Multiverso e Metaverso, pubblicati nella prima parte di quest’anno. Dieci tracce in cui è lampante la volontà da parte di ARIA di mostrarci la sua doppia anima musicale, equamente divisa tra pop ed elettronica.
A fare la voce grossa nella prima parte del disco, quella che coincide con Multiverso, è infatti il suo lato più melodico e affine a sonorità più mainstream. Una cinquina di brani plasmati su arrangiamenti rotondi e avvolgenti, in grado di accarezzare la morbidezza del chamber pop (Multiverso) e il brillante esotismo dell’urban mahmoodiana (Piangi), passando per digressioni retronostalgiche al profumo di nu-disco (Anestesia).
Una volta superata la metà dell’album, le cose cambiano e non poco. Nella sezione che corrisponde a Metaverso, il tono si fa più spigoloso e digitale, con la comparsa di synth e pattern ritmici ancora più acidi e pulsanti. Un cambio di pelle che trascina l’ascoltatore dentro atmosfere da clubbing: dopo l’omaggio in apertura alla big beat (Intro – Sarò Aria), il disco galoppa senza posa tra l’energia dell’elettropop (Metaverso) e passaggi più vespertini à la darkwave (Stalker), finendo la propria corsa con Game Over: un colpo di coda magistrale che, flirtando con l’eurodance nostrana più malandrina di inizio 2000 – Alexia, anybody? – ti lascia come Giovanni Storti in Tre uomini e una gamba, quando piagnucola la celebre battuta: “Non ce la faccio, troppi ricordi!”.
Su questo variegato plateau sonoro, capace di abbracciare quarant’anni di musica – dagli anni ’80 a oggi – si staglia l'importante presenza vocale di ARIA, che taglia il mix come una lama rovente nel burro. Un risultato legato sicuramente al lavoro eccellente compiuto in studio del producer Andrea Gargioni, abile nel valorizzare le doti vocali di Ronchi, amalgamandole perfettamente alle varie tracce strumentali.
Nonostante strizzi l’occhio a più riprese al pop mainstream (genere che, si sa, non mette quasi mai la profondità dei contenuti al primo posto) Omniverso offre spunti interessanti anche sul piano lirico. Oltre alle consuete storie di cuori infranti e relazioni giunte al capolinea, il disco si apre infatti a riflessioni decisamente più edgy: dall’impatto che la tecnologia e le folli regole dell’industria musicale ha sulla vita degli artisti di oggi (Metaverso) fino all'esplorazione del lato più tossico e ossessivo delle relazioni "amorose" (Stalker).
A conti fatti, Omniverso è un disco pop curato fin nei minimi dettagli, in grado di essere maledettamente orecchiabile senza mai cadere in una stucchevole banalità. Un album che fa sorgere in chi lo ascolta una domanda: perché, tipo a Sanremo Giovani, devono sempre finire i ripescaggi dei ripescaggi dei talent show, e non musicisti come ARIA, capaci di scrivere dischi pop che spaccano veramente? Va bene che le major investano un sacco di soldi per spingere i loro giovani artisti, ci mancherebbe. Però, ogni tanto, uno strappo alla regola in favore della qualità non sarebbe poi così male.
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La recensione Omniverso di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2025-10-29 00:01:09

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