Tutto in Sicilia

Nel mezzo dell'estate, si sono tenuti Rock The Casbah! Fest a Mazara del Vallo e Ypsigrock a Castelbuono. Marcello Farno ha fatto il tour della Sicilia e racconta come sono andati.

Rock the Casbah! Fest e Ypsigrock, i due festival siciliani d'agosto
Rock the Casbah! Fest e Ypsigrock, i due festival siciliani d'agosto - Fotografie di Mattia Argieri e Rosario Russo

Nel mezzo dell'estate, si sono tenuti Rock The Casbah! Fest a Mazara del Vallo e Ypsigrock a Castelbuono. Marcello Farno ha fatto il tour della Sicilia e racconta come sono andati.

 

In Sicilia torno sempre un sacco di volte, e sempre volentieri. Sarà che comunque da Cosenza il tempo di arrivare a Reggio e prendere un traghetto, è cosa da un paio d’ore e via. Sarà che è un semplice calare il sipario su uno sfondo diverso, il modo di porsi, l’attitudine, rimane identica a quella che c’è a casa mia.

Ora, c’è che in Sicilia, nel giro degli ultimi anni, si è creato un grosso fermento tra band, etichette, posti dove suonare e situazioni fighe. Era dai tempi degli Uzeda che tutto attorno alla scena isolana non circolava questo rumore: il Teatro Garibaldi e il Teatro Coppola (gli spazi occupati di Palermo e Catania), la storia de L’Arsenale (la federazione delle arti e della musica lanciata da Cesare Basile), l’exploit dei cantautori. «Si, ma non è che sia solo una moda stagionale», ci tiene a ribadirmi una ragazza la prima sera a Castelbuono. Mi fido, perché ha degli occhi del colore del mare e poi, mi racconta delle cose sensate su come sia tutto frutto d’un amore coltivato da tempo. Che, semplicemente, è germogliato d’un tratto mostrandosi a tutti. «È il bello di stare in un’isola, che fai tutto coi tuoi mezzi, i tuoi tempi». Ed è con l’intento di andare e carpirne il meccanismo di questo tempo che uno se ne parte e va a respirarlo appieno: Rock The Casbah! prima, Ypsigrock poi. Due facce di una stessa macromedaglia, che vive, si (auto)sostiene e cerca di coniugare al meglio la musica di alto livello con la parola Sud.

Mazara del Vallo è una piccola perla d'architettura araba, in un posto dove se c’è il cielo giusto e lanci gli occhi oltre il mare riesci a vedere pure l’Africa. I vicoli della casbah, non fosse per le ceramiche sui muri, sembrerebbero tutti gli stessi. Finisci per fare quattro o cinque volte la stessa strada, e non te ne accorgi, perdi l’orientamento ma in fondo non te ne frega niente, sai che prima o poi, da qualche parte, arriverai. Anche il caldo, più che un’attenuante reale, diventa una scusa per sedersi al bar a bere limoncelli.

In mezzo a tutto questo ardore saraceno, un gruppo di ragazzi, due anni fa, si è rimboccato le maniche dando vita al Rock The Casbah! Fest. Due serate di musica in un posto dove, per il resto dell’anno, la passione cova e trova poche estensioni dirette. Partito dal basso, con l'appoggio degli sponsor e senza il minimo aiuto da parte di un'amministrazione comunale che addirittura, per tutti e due i giorni, cercherà di mettere i bastoni tra le ruote dibattendo su autorizzazioni mancanti e decibel in eccesso.

Il palco è in un bellissima piazza, di fronte a una chiesa sconsacrata, che coi giochi di luce addosso risalta ancora di più. In cartellone ci sono cinque band, tutte siciliane, idealmente unite anche da un certo percorso comune. Mi piace pensare sia il nucleo identitario dell’evento, anche se gli organizzatori mi smentiscono dicendo che è una casualità che quest’anno sia capitato così. A loro, più semplicemente, interessa far godere, a costo zero, dei live che a queste latitudini, lungo il corso dell’anno, arrivano poche volte, al massimo nell’appendice di house concert invernali che loro stessi organizzano.


Nicolò Carnesi

La prima sera, a far da apripista di tutto, ci pensano i Bananalonga, che portano la musica a spasso, con gli amplificatori in spalla, per la casbah. Ridono come matti, si divertono, gasano come in una corrida il pubblico che li segue e li accompagna. Alcuni urlano, altri battono le mani, non poteva esserci migliore inizio. Poi è il turno di Nicolò Carnesi e Iotatola. Per quanto riguarda il primo, è la quarta volta che lo vedo live, e mi sorprende di come in ogni occasione sia capace di fare un passo in avanti. Per la sempre maggiore coesione con la band che lo accompagna (gli Hank!), per come la gente che canta i pezzi a memoria sia sempre di più. Finito il concerto, Carnesi rivela che adesso si chiuderà in casa a scrivere il disco nuovo e che dentro ci metterà pure echi diversi, magari chillwave. Le Iotatola invece si rivelano una mezza delusione. Sono in due e portano avanti un discorso musicale abbastanza minimale e percussivo, si scambiano gli strumenti tra un pezzo e l'altro, tendendo a strutture mai ripetitive. La voce poi è potentissima, però i testi mi fanno letteralmente cadere le braccia. Se ne salvano giusto un paio, degli altri non capisco la patina cinica e l'ironia, che vorrebbe essere sottile ma a parer mio non ci riesce mai.


Marta sui Tubi

La seconda sera si inizia con Oratio, che si colloca in un terreno diverso rispetto agli altri songwriter siculi. Ha dei tratti più roots, le atmosfere soffuse di una stanza con le luci spente. Anche qui a volte il colpo affonda meglio, altre meno. Una questione di maturità, si spera. Poi è la volta degli headliner di tutta la rassegna, i Marta sui Tubi, che tornano a suonare vicino casa dopo un sacco di tempo. Ci mettono una carica diversa, si sente, e il concerto che ne esce è di una bellezza disarmante. Mi giro e vedo la piazza piena, tutti quanti fissi verso il palco, sembra assumano per osmosi la potenza che la band trasmette. Suonano in maniera impeccabile, senza mollare d'un metro anche nei pezzi più lacrimogeni. Qualcuno avrebbe parlato di koinè, senso d'insieme. Sarebbe stata la descrizione più giusta. Chiudono con “L'abbandono” e la gente è una voce sola.

Il giorno dopo sono già in viaggio verso Castelbuono, provincia di Palermo, direzione Ypsigrock. In macchina, coi ragazzi di Trallalàlla e Radio Ciroma, si continua a ribadire di come Mazara sia uno dei posti più ibridi e originali (e quindi belli) di tutta Italia, e di come Rock The Casbah! sia riuscito, per quanto possibile, a smuovere un po' d'attenzione e scardinare dei meccanismi vetusti nella città. È alla III edizione, ha bisogno ancora di crescere tanto e farsi accettare da tutto il tessuto urbano come risorsa per un posto che col turismo ci campa. Se fosse così, si potrebbe anche provare a farlo entrare nell'ottica di festival (più concerti, anche dal pomeriggio). Ha un proscenio cittadino di tutto rispetto e una passione così forte da parte di chi lo organizz, che me lo auguro con tutto il cuore.

A Castelbuono, quando arrivi, la prima cosa che vedi è il mare. Il tempo di girare una curva e lo dimentichi subito. Il paese sta su, arroccato in montagna. È un piccolo centro turistico in mezzo alle Madonie, diecimila abitanti, dove, ormai quindici anni fa, un gruppo di ragazzi di provincia ha deciso di tirare su un festival che richiamasse i nomi migliori della scena indie internazionale (quando questi termini avevano ancora un senso forte). È cresciuto un'edizione dopo l'altra, passando dall'avere solo band italiane a vantare headliner come Gang of Four, Motorpsycho, Mogwai e tanti altri. Quest'anno poi ci sono i Primal Scream, che per gli organizzatori, mi dicono, è un po' come avere sul palco gli idoli della giovinezza. Assieme ai nomi, col tempo, il festival stesso ha iniziato ad entrare nelle maglie sociali che governano le dinamiche del posto. Vedi tutto un paese, giovani e meno giovani, impegnato nella buona riuscita del tutto. Uno stuolo di volontari che ti serve prontamente di medie chiare e cornetti anche alle 6 del mattino.

Ci metti poco a entrare dentro il clima. C’è il sole, che prende sempre bene, e uno stuolo di nu-comers e aficionados che invade le strade di un borgo dove, quando ti assale l’indolenza del passo meridionale, staresti a mollo per ore. Piazza Castello è tutto un saliscendi di gradinate e sanpietrini, una location bellissima, tre mura di cinta, il suono che ti esplode in faccia, la gente assiepata e seduta a cavalcioni che si gode il concerto.

La musica inizia dal pomeriggio. Prima ci sono gli showcase, tra gli angoli del corso. Ci suonano, tra gli altri, Mapuche, Pocket Chestnut, anche qui Nicolò Carnesi. È una formula adottata da un paio d’anni, che dovrebbe trovare forma stabile per risaltare ancora di più. Ci si sta pensando per l’anno prossimo, donerebbe certamente ancora più spessore e non sarebbe che un bene.


Venezia

Il primo giorno c’è Stephen Malkmus a far da headliner, ma gli occhi sono tutti puntati sugli Of Montreal, che si rivelano la splendida macchina porno-freak-glam che tutti si aspettavano. Prima di loro: Gentless3, che aprono davanti ad ancora poca gente ma giocano al meglio tutte le carte che hanno in tasca. Iniziano in slow-motion, poi mettono dentro pure il banjo e diventano folk, ma sempre in una maniera scura, alla Jason Molina, che conquista e tormenta. Poi Altre di B, che sono un prontuario di tutto il suono indie-rock cameretta degli ultimi dieci anni. Mescolano le melodie con certi affondi core, e però un senso alla fine il tutto ce l’ha, eccome, ed entusiasmano un sacco. Degli italiani in cartellone, la sera dopo è il turno di VeneziA, che non so se sia una mia impressione ma fa un concerto perfetto, che mette i Suicide vicino a Piero Ciampi. Un lungo sabba, scuro e tagliente, dove i synth grattano come carta-vetra, i timpani ritualizzano e la voce, aridissima e magica, fa il resto. I Did invece ci mettono il tempo di due-tre pezzi a carburare. Esplodono d’un tratto, e poi da lì è lungo andare. Fanno anche un pezzo nuovo, antifona del disco in preparazione, bello dinamitardo, e chiudono come al solito centrifugando tutto. La sera stessa, il live più lungimirante lo fanno gli Shabazz Palaces, quello più bello e magico gli Alt-J, il giorno dopo. Con la gente che si emoziona assieme a loro, che sul palco dicono di non essersi mai trovati di fronte a tutto questo amore, ed è lì che scatta la scintilla, cadono tutte le barriere e il respirare assieme la stessa atmosfera diventa una tangibile realtà. Come con i Primal Scream, per i quali Piazza Castello diventa un turbinio di colori che Bobby G tiene in pugno e scuote a suo piacimento.


Did

E come se non bastasse, puntualmente, ogni sera l’epilogo è in campeggio, sei km più su di Piazza Castello. All’inizio la distanza sembra disorientante, poi i tornanti e le navette diventano un tutt’uno della cosa, il lenitivo necessario dei post-serata, che salire lì, alla frescura, e ballare fino al mattino diventa ancora più appagante. Resident-dj sono quei matti di Shirt vs T-Shirt, si tira la volata fino alle otto, a volte in console sale anche Guido Savini dei Did, un’altra sera aprono gli Omosumo, un progetto cassa dritta e fulmicotone che vede in mezzo anche DiMartino, l’ultimo giorno ci sono Everybody Tesla e Boxeur The Couer a riscaldare una cricca variopinta e marcia che non ne vuole sapere di smettere e darci dentro. Poche altre volte ho visto così tanto furore e divertimento in un festival italiano.

In conclusione, il lunedì dopo smonti tutto e te ne vai, ed è come uscire da una bolla di sapone. Un paese che per quattro giorni ti ha custodito, preservando la tua integrità morale a base di suoni, vibes, alcool e bellezza, ti lascia intatti i ricordi ma si prende tutto il corollario che ci sta attorno. Significa che alla base di tutto c’è l’unicità, che per un festival è il miglior complimento possibile. Esperienze come l’Ypsigrock ti riequilibrano e portano soprattutto a sperare che, finché rimane la forza di cambiare le cose con quel poco che rimane, una speranza c’è. Quindici anni fa, in mezzo alle Madonie, c’era poco e niente. Adesso, c’è un festival che mette l’umanità e la musica al centro di tutto. E scusate se è poco.

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L'articolo Tutto in Sicilia di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2012-08-07 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • sanmar 10 anni fa Rispondi

    Leggere tutte queste belle cose rispolvera l'orgoglio di essere siculo!

  • faustiko 12 anni fa Rispondi

    Bellissimo report. Complimenti.