Un disco dolcissimo, dove la lingua carnica diventa un canto d’elfo, un canto di terra. Grandissima musica
La storia di questo disco incredibile inizia con un nome: Iggy Pop. Tutto vero, quell'Iggy Pop, l'ultima leggenda vivente del Novecento. Lo stesso Iggy Pop che qualche tempo fa sentivamo duettare coi Maneskin, ha raddrizzato il tiro, almeno nei confronti della musica italiana. Il mese scorso durante la sua trasmissione radiofonica per BBC Radio 6 Music, Slow Sunday, ha mandato in onda uno stralcio di Nijò, il più significativo dei singoli che anticipano il primo disco di Massimo Silverio, Hrudja, interamente cantato in lingua carnica.
Iggy ha consigliato l'ascolto di questo grande nuovo artista, ci ha buttato dentro Pasolini, che definiva il friulano la lingua perfetta per la poesia, e l'aneddoto potrebbe finire qua, e in effetti finisce davvero. Non fosse che Hrudja è davvero un disco speciale quanto la storia che abbiamo appena raccontato, un disco che non è semplicemente ancorato al territorio in cui è stato concepito, ma che suona come una grande zolla di terra, poetica e in movimento, freddo di un freddo tiepido, mai glaciale, dove ogni elemento sonoro è usato per creare atmosfere precise e molto complesse.
Massimo Silverio suona di tutto, chitarra, basso, organo, violoncello e persino uno strumento tradizionale delle alpi dinariche, la guzla, è accompagnato da altri quattro grandi musicisti, Nicholas Remondino, Manuel Volpe, Michele Anelli e Luca Sguera. Sembra quasi superfluo citare il pianoforte preparato, il contrabbasso, i synth e tutto il resto che viene suonato, perché quello che fuoriesce sembra essere frutto di un solo grande organismo vivente, che emette la musica su cui Silverio può cantare i suoi versi in carnico.
Ed è proprio quando subentra la voce che sembra di star assistendo al concerto di un Thom Yorke alpino, e la questione della somiglianza non è minimamente nello spettro dell'emulazione, dell'omaggio. Nel bisogno espressivo di Massimo Silverio c'era questo modo di comporre, con forti richiami ad alcuni passaggi dell'ultimo disco di Iosonouncane ma senza finire nel tribale, e soprattutto questo modo di cantare, necessario e niente più. Una volta che si ha a disposizione una lingua del genere può sembrare facile creare un'opera che faccia parlare di sé, perché strana o fuori dagli schemi.
Invece Hrudja in un certo senso rimane dentro alcuni schemi, ricorda tanta bella - e grandissima - musica internazionale, ed è un disco dolcissimo, dove gli angoli sono smussati in continuazione, dai testi incomprensibili dei brani. A volte sembra di sentire una voce portoghese, altre l'elfico dei Sigur Ros o la lingua ibrida del già citato Iosonouncane. Non si capisce una parola, non si direbbe mai che questi suoni vocali così impastati vengano dall'Italia, dalle rocce alpine, dal ghiaccio torrenziale.
Ancora una volta torniamo a ricordarci che il folk non è l'esaltazione della ruralità, l'idealizzazione di un campo coltivato o di una pecora bianca, ma è la vita sporca e poetica che esce da qualunque terra. Massimo Silverio con Hrudja ha preso il folk italiano e lo ha fatto risplendere di nuovo, gli ha messo il vestito di cui forse aveva bisogno. Grezzo e spontaneo, ma elegante di un'eleganza che lo rende pronto per un club torinese, non ci stupiremmo di sentir presto suonare questo disco in grandi palchi. La linea per adesso può tornare allo studio, grazie Iggy, buon ascolto.
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La recensione Hrudja di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2023-11-24 00:00:00
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