Encode Core 2011 -

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Per un trentenne al giro di boa, recensire dischi del genere rappresenta forse la migliore occasione per lanciarsi indietro nel tempo e riscoprire la bellezza di ciò che, musicalmente, ha segnato un determinato periodo della propria vita. Era infatti quasi concluso il decennio degli anni '90 e, dopo la golosa abbuffata del grunge (e di tutto ciò che orbitava intorno), era venuto il momento di tirare i remi in barca per ripartire verso altri lidi, alla ricerca di altre mete (relativamente) inedite. E fu così che ebbe inizio l'epoca del "post-rock", che ribaltava i canoni dell'abbuffata di cui sopra rimettendo al centro ritmiche (s)quadrate in funzione di chitarre lontane anni luce dal Seattle sound.

E proprio da queste coordinate "Core" muove i suoi passi: 9 tracce che, sia chiaro, non si riducono a una mera operazione di "revival", bensì rappresentano il tentativo di dimostrare che non sono passati invano gli 8 anni che ci dividono da "Singing through the telescope", l'esordio che si guadagnò - non a caso - il bollino "Primascelta". Stavolta il livello qualitativo viene quasi eguagliato e si intuisce subito con la traccia iniziale "The flag", pura ipnosi chitarristica a cavallo tra Blonde Redhead e June of 44 che esplode in un crescendo finale. Peccato che nella successiva "My season will still suck" si spezzi, in maniera quasi ingenua, l'atmosfera creatasi inizialmente; non convince infatti la scelta di rallentare quasi completamente il ritmo (o almeno non in quel punto!) e mi domando perché non piazzare subito "Ausfahrt", la terza della tracklist, gioiellino che richiama le atmosfere dei Julie's Haircut di "Satan eats seitan". Nulla di grave comunque, considerato che, nonostante il mezzo passo falso, la riuscita di "Core" non viene compromessa; nelle rimanenti 6 tracce, infatti, gli Encode dimostrano di non aver perso la bussola: lo spleen dei Sophia, le chitarre di Jonny Greenwood, i Black Heart Procession degli esordi, il nervosismo dei Sonic Youth (e di tutti i possibili figliocci) e le sfuriate del paisley undergound vengono rimescolati in un vortice sonoro che non lascia scampo all'ascoltatore, regalando una memorabile mezza dozzina.

L'apice viene raggiunto con "Memories of murder" (pieno post-rock!) e "Frost killed most of the sense" (qui siamo in zona dEUS), i due episodi più luminescenti di un album che non mancherà di emozionarvi e magari se la giocherà alla fine di quest'anno fra i titoli da ricordare. Il consiglio, però, è di consumarlo adesso, senza perdere altro tempo.

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La recensione Core di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2011-05-04 00:00:00

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