Julie's Haircut - Quel senso di appartenenza

O anche di come è cambiato il modo di ascoltare musica ma, tutto sommato, non siamo ancora così vecchi per non capirne l'aspetto curioso, stimolante e creativo. Luca Giovanardi chiacchiera a lungo spaziando tra le tre b - Beatles, Jackson Brown e Beethoven - vinili, cd e ascoltatori fluidi, per term

O anche di come è cambiato il modo di ascoltare musica ma, tutto sommato, non siamo ancora così vecchi per non capirne l'aspetto curioso, stimolante e creativo. Luca Giovanardi chiacchiera a lungo spaziando tra le tre b - Beatles, Jackson Brown e Beethoven - vinili, cd e ascoltatori fluidi, per term
O anche di come è cambiato il modo di ascoltare musica ma, tutto sommato, non siamo ancora così vecchi per non capirne l'aspetto curioso, stimolante e creativo. Luca Giovanardi chiacchiera a lungo spaziando tra le tre b - Beatles, Jackson Brown e Beethoven - vinili, cd e ascoltatori fluidi, per term

O anche di come è cambiato il modo di ascoltare musica ma, tutto sommato, non siamo ancora così vecchi per non capirne l'aspetto curioso, stimolante e creativo. Luca Giovanardi chiacchiera a lungo spaziando tra le tre b - Beatles, Jackson Brown e Beethoven - vinili, cd e ascoltatori fluidi, per terminare il racconto dicendo che ci sono cose importanti, che ti influenzano e tu non puoi far altro che emozionarti assorbendo tutto come una spugna. I Julie's Haircut hanno pubblicato un nuovo disco, "Ashram Equinox", e Francesco Fusaro li ha intervistati.

“Ashram Equinox” ha una forte componente elettronica. Di recente ho intervistato un vostro corregionale, Dj Rocca, che porta avanti progetti che possono secondo me essere ricollegati a questo vostro ultimo album come sound. Ma c'è anche un forte sapore da colonna sonora, altro aspetto del percorso di Julie's Haircut degli ultimi anni. Che ne dici di queste coordinate?
Sì, c'è tantissima elettronica in questo disco, e forse addirittura di più dal vivo. Ci siamo autocampionati e molte cose che nell'album vengono fatte con sintetizzatori o con strumenti acustici in concerto sono pre-registrate, una cosa che ci affascina ma che maneggiamo evitando di essere schiavi delle macchine. La rigidità del tempo di un computer non ci è mai andata troppo a genio; grazie ai tap tempo e a software come Ableton adesso si riesce a rimettere il proprio batterista al centro dell'esecuzione musicale e a subordinare l'elettronica all'elemento suonato. Giusto anche il discorso delle colonne sonore anche se si tratta di un riferimento indiretto dovuto all'assenza di testi. In questo modo i pezzi diventano evocativi di sensazioni individuali che possono anche di volta in volta cambiare, come capita a me quando – raramente – ci torno sopra come ascoltatore.

Sei uno che ritorna molto sui propri album?
Il meno possibile. Per carità, tendo a metabolizzare tanto i pezzi durante l'elaborazione dell'album che quella componente narcisistica del riascolto man mano diminuisce; ma credo che sia una cosa un po' di tutti i musicisti in realtà. O meglio di quelli con un percorso lungo alle spalle. Non mi verrebbe da mettermi su un mio album mentre sto in casa, preferisco Thelonious Monk insomma.

Sei un musicista che ascolta solo da musicista o riesci a goderti un brano senza pensare “Questa cosa potremmo riutilizzarla, ci potremmo girare intorno un qualche modo”?
Da musicista è letteralmente impossibile non fare un ascolto da musicista, però quando ascolto non analizzo, lo faccio per piacevolezza. Ci possono essere delle cose che inconsciamente ti rendi conto di avere preso e stravolto, ma solo a posteriori, anche perché magari si tratta di ambiti musicali molto distanti. Non è un processo conscio, quando suoniamo abbiamo un approccio istintivio senza avere paura di fare musica che può essere figlia di un milione di cose frullate insieme e filtrate attraverso la nostra sensibilità.

Che cosa stai ascoltando in questo periodo, visto che siamo in zona ascolti privati?
Molto jazz, cose della Blue Note degli anni '50 e '60. Ultimamente anche molto Tangerine Dream, ho preso diverse cose loro. Contrariamente a quanto si possa pensare non è un gruppo che ho particolarmente presente, ci sono cose loro che non mi piacciono ma altre che invece trovo affascinanti. Poi anche Klaus Schulze...

Beh, in effetti viene un po' da pensare al kraut rock ascoltando “Ashram Equinox”.
Sì, anche in quell'ambito lì ci sono molte cose che andrebbero riscoperte. Sono suoni che ci accompagnano come ascolto da una decina d'anni, anche se ti dirò che io continuo ad ascoltare su vinile e quindi prendo cose vecchie, pescando un po' da tutte le parti. Jazz ma anche Jackson Browne per dirti. Sto ascoltando “Late for the Sky” che è un disco bellissimo ma che come sonorità non appartiene molto al suono dei Julie's Haircut se vuoi. Poi di recente ho preso un pianoforte e sto studiando quindi ascolto anche classica, Beethoven e le Sonate...

Vogliamo provare invece a buttarci nella polemica Spotify e vedere come la pensi rispetto al discorso supporti fisici contro musica liquida?
Non ho molte preclusioni in questo senso, sono un po' fatalista: prima dello streaming si scaricava il disco, ora con lo streaming almeno questa pratica è andata scemando. È vero però come dicono molti che le band piccole si vedono riconosciute davvero poco in termini economici. Sempre qualcosa, il che tutto sommato non è un male, però si tratta quasi di un riconoscimento nominale. Inutile però essere luddisti: il mondo si è voluto in una certa maniera e non si torna indietro; i passaggi in radio non erano poi così pagati, tant'è che io vedo i vari Spotify e Deezer come dei grandi network radiofonici su Internet. Da ascoltatore io ascolto su qualsiasi supporto. Ecco, forse il cd no: il cd mi sembra davvero un supporto stupido che in qualche modo ha contribuito a rovinare le pratiche di ascolto odierno. In primis perché il digitale come sound è diventato un dogma mentre io sono più per il fruscio del vinile, come John Peel. La vita ha un costante fruscio di sottofondo, quindi anche la musica forse dovrebbe averlo. Io preferisco il vinile e non sono il solo. Per dirti, i dati di vendita del nostro ultimo album dicono di un superamento del 25% del vinile rispetto al cd. Anche perché nel disco in vinile abbiamo messo, al posto del download, proprio il cd. E qui torniamo al discorso industriale: le case discografiche vent'anni fa si buttarono sul compact disc dando all'utente ad un costo maggiore un prodotto che davvero costava meno in termini di produzione ed era oggettivamente più brutto, e sfido chiunque a dire che il cd sia più bello del vinile. L'industria ha dimostrato davvero scarsa lungimiranza e ora ne paga le conseguenze. Siamo tornati al livello di artigianato: un'industria che ti porta in classifica con 1500 copie vendute che mercato potrai mai avere? Il che può anche andar bene, eh!

Paradossalmente in una situazione del genere una band come Julie's Haricut, con una solida fanbase alle spalle, può anche trarne giovamento.
Sì, ti dirò che con sonorità come queste stiamo acquistando anche un pubblico più adulto e stiamo allargando il numero delle persone che ci seguono. Si tratta di fruitori di musica che comprano ancora l'oggetto musicale e in questo senso abbiamo trovato un'ottima sinergia con le etichette Woodworm e Santeria che ci hanno supportato e hanno insistito nel produrre un'edizione in vinile davvero molto bella, con vinile colorato, gatefold, libro illustrato di 12 pagine. Credo che avere spinto in questa direzione alla fine stia pagando. Il disco musicalmente deve essere bello, però è giusto fare in modo che lo sia altrettanto il supporto.

Venendo al disco mi piacerebbe chiederti qualche delucidazione sui titoli.
Ti premetto che siamo un po' refrattari alle spiegazioni...

Non voglio forzarti, mi incuriosiva una in particolare, ovvero “Sator”. C'entra qualcosa il famoso quadrato magico utilizzato anche per spiegare il metodo compositivo di Schönberg?
I titoli hanno tutti un riferimento ma, essendo le canzoni prive di testo, vorrei sottolineare il fatto che non si tratta di titoli descrittivi. Vogliono avere soltanto una valenza intuitiva. È Nicola che è per così dire l'addetto alle titolazioni e lui le spiega così: sono come immagini di un sogno. Quando vedi qualcosa in un sogno sai che è portatrice di un significato ma non sai dire esattamente da dove venga. In qualche modo però capisci che c'entra, che ha un significato. Titoli e musica in questo disco hanno un rapporto inconscio che non vuole indirizzare l'ascoltatore verso qualcosa di preciso.

Si può allora fare il discorso delle suggestioni musicali che rimangono impigliate anche per altre discipline come letteratura, cinema, arti visive? “Ashram Equinox” è quindi in un certo senso figlio di cose extra-musicali?
Assolutamente sì, anzi ti dirò che credo che le suggestioni extra-musicali siano maggioritarie. Cerchiamo di essere delle spugne quando stiamo realizzando nuova musica, quindi nessuna paura nell'essere influenzati evitando però di essere letterali nel citare l'influenza. Se però vengono in un certo senso a posteriori, ben venga. Non ci interessa essere calati in un qualche trend contemporaneo. Come diceva Kandinskij l'arte che è troppo figlia del proprio tempo è un'arte sterile, che non guarda al futuro. Se riesci a farti influenzare da ciò che ti circonda facendo allo stesso tempo qualcosa di classico, allora forse stai facendo davvero qualcosa di artistico che guarda al futuro.

Ci sono in effetti cose che torneremo ad ascoltare solo come reperti storici, come porte spalancate su di un'epoca passata, e cose che invece continueranno ad instaurare con noi un rapporto umano. Forse è anche questo che intendevi?
Certo. Con questo non voglio dire che noi ci riusciamo. L'obiettivo però di ogni artista secondo me deve essere quello. Poi, che ci riesca o non ci riesca, quello è un altro discorso. Puntare alla classicità, che è una cosa diversa dal classicismo (un paradigma, uno schema), è una cosa che dovrebbe essere sempre perseguita. L'arte deve essere pura, deve essere eterna, slegata dalle mode. Non ci si stuferà mai di ascoltare i Beatles, insomma, perché c'è una contemporaneità in loro che è soltanto figlia di un approccio libero, che arriva con naturalezza, non è ricercata. Pensiamo ad esempio a Burial: ti rendi conto che è un linguaggio che si riferisce a molte cose precedenti, con una contemporaneità non ricercata, è un instant-classic. Poi ovviamente come spesso succede questo dà modo di creare una miriade di cose che sono figlie di quel suono ma che sono nel migliore dei casi poco più che imitazione. Queste cose non rimarranno, e potranno anche avere un successo enorme, ma sarà così purtroppo. Anzi, credo che in generale in un periodo di aridità creativa, dove mancano i grandi arstisti, queste cose di minor valore abbiano maggior fortuna, abbiano una vita più lunga e riescano ad imporsi più facilmente. In certi periodi artisti ed ascoltatori sono poco abituati alla grande bellezza, come la chiamerebbe Sorrentino, e quindi tendono inconsapevolmente ad accontentarsi. Il dovere dell'artista è quello di non accontentarsi e di fare in modo che i suoi ascoltatori non si accontentino.

Il pubblico adulto che vi ascolta potrebbe dunque stare a significare che avete fatto un disco che richiede una certa consapevolezza, un certo tipo di approccio all'ascolto.
Non lo so, non sono del tutto sicuro che si tratti di un fatto anagrafico. Ho conosciuto diversi ragazzi giovani perfettamente consapevoli della superficialità del mondo che li circonda. Quindi molto più interessati a cercare film, letteratura... Alla fine è una questione di curiosità, sai. Se il mondo morirà sarà per colpa di una mancanza di curiosità. Ma questo è vero da sempre: i grandi filosofi, i grandi scienziati sono in primis dei grandi curiosi, cioè gente che non si accontenta, che vuole saperne di più, che va in cerca. Finché ci saranno curiosi ci sarà qualche speranza.

Internet in questo senso paradossalmente impigrisce.
In un mondo come il nostro ci vuole una curiosità ancora più genuina, vista la quantità di informazioni, spesso non richieste, che ci vengono sottoposte. Prima ogni informazione acquisita era spesso portatrice di una fatica, e in quanto tale assumeva un valore individuale del tutto peculiare. Siamo al solito discorso che facciamo noi vecchi: quando dovevo trovare un certo disco facevo fatica e quindi poi si creava intorno a quell'ascolto tutta una serie di cose molto lontane dall'immediatezza di oggi. Che poi l'immediatezza dell'era di Internet non è sbagliata: è sbagliato accontentarsi, questo sì. Cioè, se una cosa non è veramente bella, lasciala andare. Chi se ne importa di cosa ti dicono gli altri.

Adesso la pressione però e doppia: c'è la pressione virtuale di blog e social network e quella reale delle relazioni umane di ogni giorno, e diventa ancora più difficile (paradossalmente, visto che si parla di “Me me me generation”) affermare un proprio gusto individuale.
Sì, ma anche perché non si è mai trattato in realtà di un gusto individuale. Era poi una cosa, quella ad esempio dell'ascolto di un certo genere musicale, che ti avvicinava ad altre persone che erano come te. Ed è questo che secondo me è venuto un po' a mancare in questo periodo. Una volta potevi essere un paria della classe del tuo liceo perché ascoltavi, che ne so, i Bad Brains invece di Rick Astley. Però questa cosa in qualche maniera diventava una calamita che ti avvicinava a persone del tuo circondario che erano come te, perché non eri solo. Allora pian piano te le andavi a cercare queste persone perché leggevano le stesse tue riviste, frequentavano gli stessi tuoi locali. E poi scoprivi che c'era la radio che programmava quel tipo di musica e tu non lo sapevi. C'era un senso di appartenenza, e se tu non facevi parte del gusto di massa diventava quasi una punta di orgoglio: “Non sono come voi ma non sono solo”. Ora che il ritrovo fisico fra persone è venuto meno rispetto al ritrovo virtuale, che è molto più fagocitante, molto più dispersivo e generalizzato, questo genere di gruppi di appartenenza (non mi piace il termine nicchie) viene meno. Oppure esistono ma in maniera del tutto estetica e superficiale: vuoi mettere insomma il senso di appartenenza che può avere un hipster alla cultura hipster rispetto a quello che poteva avere, faccio per dire, un punk alla fine degli anni '70 nei confronti del movimento punk? Erano partecipazioni un po' più emotive rispetto alla partecipazione superficiale di oggi. Però ripeto: non bisogna arrendersi a questa cosa.

In questo senso Julie's Haircut è nella lotta?
No, no! (ride, NdR). Non vogliamo essere capostipiti di alcunché. Ci occupiamo di musica e cerchiamo di fare una musica interessante, ecco tutto.
 

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L'articolo Julie's Haircut - Quel senso di appartenenza di Francesco Fusaro è apparso su Rockit.it il 2013-10-23 00:00:00

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