Atman - Anomalia - Prato



La tipica esclamazione “pochi ma buoni” – spesso proferita dal maestro cerimoniere di turno per sottolineare la bontà di un evento e delle persone che vi hanno preso parte come spettatori – mai è stata tanto esemplificativa quanto durante il primo Venerdì del 2005 in occasione del concerto degli Atman, giovane band di Lucca che, a detta di tutti (me compreso!), si meriterebbe palcoscenici ben più ampi e frequentati. All’”Anomalia Club” di Prato – indubbiamente uno dei locali toscani più sensibili alla musica alternativa ed emergente – non siamo molto numerosi allo scoccar delle 23.30, quando i quattro ragazzi lucchesi imbracciano i loro strumenti per dare il via a novanta minuti di totale apocalisse sonora, tra sismiche esplosioni di chitarra e propulsive oscillazioni di basso e batteria. Fin dalle prime note dell’apripista “Absurd Act” persino lo spettatore più distratto intuisce immediatamente quale sarà il tenore della serata, poco incline a silenziose meditazioni tibetane o a romantiche effusioni amorose. Nel più totale minimalismo didascalico – giusto poche parole per farfugliare i titoli delle canzoni – e nella più inquietante delle trance da esibizione live gli Atman eseguiranno la bellezza di diciannove canzoni pescando qua e là tra le prime autoproduzioni, l’album d’esordio “The life i’ve never had” e il nuovissimo PromoCD 2005, salvaguardando per tutta la durata del concerto quella matrice sonora che li ha resi musicalmente inconfondibili nel panorama alternativo italiano: rock-noise melodico di altissima qualità, sospeso tra i Pixies più spensierati e i Nirvana più psichedelici, con velenose digressioni strumentali alla Soundgarden e malinconiche depressioni umorali alla Smashing Pumpkins. Niente d’ingombrante, per carità! Solo quattro punti cardinali per garantirsi sicuri appigli sonori qualora dovesse venir meno quell’approccio melodico tipicamente italiano che caratterizza il loro sound. Che lo vogliate o meno, infatti, all’interno di quasi tutte le loro canzoni, nei più profondi meandri delle compressioni di chitarra e dei risucchi ritmici – nonostante le liriche in inglese – batte un cuoricino tutto italiano per non comune gusto della melodia e orecchiabilità dei ritornelli, tanto limpidi ed efficaci che il pubblico riesce nell’impresa di riconoscerli e canticchiarli nonostante l’inclemenza dell’audio, riesumandoli dall’impasto nebuloso dei suoni.

Ad eccezione di due splendide covers (“Life on Mars” di David Bowie e “Perfect Day” di Lou Reed) riproposte in salsa soft-core, gli Atman ripercorrono la loro quasi decennale carriera allineando, senza nemmeno prender fiato, tutte le loro canzoni più rappresentative da “Narcissism” a “No Compromise”, senza rinnegare – volutamente – le canzoni più acerbe dei primissimi tempi (come “Bastard” e “Shit Little Heap”) fin troppo sature di influenze nirvaniane. Con sconcertante disinvoltura gli Atman rimodulano in chiave indie gli elementi caratterizzanti del grunge-rock, edulcorando da un lato il minimalismo dei suoi classici refrains ed esasperandone nel contempo la dirompenza dei distorti così che, tranquillo con il tuo bicchiere in mano, ti ritrovi – come per magia – in un primo momento coccolato dalla simpatica melodia da college-hit di “Every Day” e di seguito mortalmente colpito allo stomaco dalla frustata di decibel di “XXX”, furibonda epopea noise che violenta fisicamente la tua tranquillità a quella del tuo bicchiere! Sono ormai le una della notte, le orecchie di noi tutti ronzano fastidiosamente e tuttavia desiderano famelicamente il bis, che puntualmente arriva dopo qualche sorsata di birra: “We all are fucked” ci procura un’ulteriore dose destabilizzante di lividi sonori mentre la bellissima ballata “Rotten River” – nella sua ruvida bellezza impreziosita per l’occasione da una circolare coda psichedelica – ci fa ricordare (semmai ce ne fossimo dimenticati!) quanto sia stato grande l’alternative-rock americano degli anni’90.

Alle una e un quarto esatte gli strumenti esalano il loro ultimo respiro, si accendono le luci e si spengono gli amplificatori. Il silenzio fa un effetto strano adesso. Gran bel concerto, grandi canzoni, grande muro di suono e grande gruppo, nonostante un’eccessiva timidezza comunicativa e alcune trascurabili incertezze esecutive venute a galla durante alcuni assoli e in qualche finale di canzone. Con la speranza di rivederli dal vivo in arene ben più popolate mi bevo un’altra pinta alla loro salute e a quella di coloro che non sono venuti. Peggio per loro!



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L'articolo Atman - Anomalia - Prato di Antonio Belmonte è apparso su Rockit.it il 2005-01-07 00:00:00

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