Clap! Clap! - Suonare la terra e le stelle: Clap! Clap! racconta “A Thousand Skies”

Per l'ultimo “A Thousand Skies”, Clap! Clap! ha deciso di rimanere in Italia: un territorio che paradossalmente ha riscoperto da poco ma che è un pozzo di stimoli interessantissimi. Ce li racconta in questa nostra intervista.

a thousand skies clap clap artwork
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La cosa bella della musica di Clap! Clap! è che ha radici ovunque: pesca dalle tradizioni ritmiche e sonore di moltissimi luoghi diversi mescolandole assieme, eppure ognuno giurerebbe di distinguere i contorni di un posto in particolare, di una campagna o di una costa in qualche modo familiare.
Nell'ultimo disco che esce oggi, "A Thousand Skies", il producer fiorentino ha deciso di rimanere in Italia: un territorio che paradossalmente ha riscoperto da poco ma che è un pozzo di stimoli interessantissimi. Ce li racconta in questa nostra intervista. 


“A Thousand Skies”, mille cieli. Coerentemente con il titolo, le canzoni del tuo nuovo album riportano nomi di costellazioni. Quanto ne sai di astronomia, e cosa ti attira delle costellazioni tanto da farne un concept album?
Tutta la mia attrazione per le stelle nasce dalle sette Pleiadi, perché è una costellazione alla quale sono sempre stato affezionato da quando sono piccolino: tutte le volte che alzo gli occhi al cielo, la prima cosa che cerco con gli occhi sono quelle stelle lì. Sento di essere molto legato a questa costellazione. In più nel periodo in cui scrivevo il disco mia figlia Greta era nei suoi primi mesi di vita, quindi ho unito queste due suggestioni: nel disco racconto l’avventura di una ragazza immaginaria la cui storia serve a ricordarci che il mondo è pieno di meraviglie. E poi riprendo anche le storie della mitologia greco-romana legate alle stelle, però rivisitate a modo mio.

C’è una storia che ti ha colpito e ispirato più delle altre?
Quella di Orione, il cacciatore gigante che era innamorato delle sette sorelle delle Pleiadi. La mitologia greca e romana ovviamente è ricchissima, ma la cosa interessante è stata confrontarla con quella dei Tuareg. Alcune costellazioni sono le stesse e le due culture ci hanno costruito attorno le stesse storie. Comunque, come tutte le persone cresciute al mare o in campagna, sono sempre stato affascinato dalle costellazioni, le notti passate ad ammirare le stelle sono tra i momenti più belli della vita. È una cosa che faccio tuttora, e che spero di continuare a fare con mia figlia.


Ancora una volta il tuo disco è un pastiche di suoni e stili diversi. C’è un po’ di hip hop, footwork di Chicago, drum and bass inglese e house. Che tipo di ricerca hai fatto durante la composizione di “A Thousand Skies”?

Un tipo di ricerca molto territoriale, questa volta sono voluto rimanere molto di più in Italia. Nei miei lavori precedenti avevo esplorato più i suoni della Siberia, Mongolia, Alaska, insomma posti freddi. Cercavo di campionarne però le ritmiche più calde, quelle che possono normalmente essere accomunate all’Africa. Questa volta invece sono voluto rimanere in Italia perché viviamo in un territorio ricchissimo, è un tesoro di culture, strumenti, vecchie fiabe, filastrocche. Ho riscoperto questo patrimonio solo da pochi anni, facendo ricerca sia in Sardegna che in Sicilia e da lì mi è venuta la voglia di concentrarmi musicalmente su quella che è la mia di terra. Infatti l’intro è campionato da una ricerca di Di Martino in Abruzzo, è un lamento di una vedova registrato. Non solo, ci sono anche tante registrazioni di Alan Lomax fatte in Calabria e in Sicilia negli anni ‘50. Ho voluto sfruttare molto quelli che sono i nostri suoni, i suoni del nostro paese, aggiungendo poi la mia impronta personale.

Sei un appassionato di field recordings, e i sample creati da te immagino siano uno degli elementi chiave della tua musica. Qual è il più strano o quello che è stato più difficile ottenere?
Tra quelli fatti da me, mi hanno dato soddisfazione quelli che ho preso da Pinuccio Sciola. È uno dei più grandi artisti mai vissuti in questo paese e ho anche avuto la fortuna di conoscerlo di persona. Lui era di San Sperate (provincia di Cagliari, ndr), è morto purtroppo qualche anno fa. È sempre stato un maestro di scultura e ha inventato ormai quasi 20 anni fa la pietra musicale: ha iniziato ad intagliare sia il granito che le pietre laviche usandole per creare dei veri e propri strumenti. È incredibile come sia riuscito a mantenere la natura e il suono della pietra in qualsiasi strumento lui abbia creato: dalle pietre fatte con la lava escono soltanto suoni bassi e caldi, qualsiasi cosa tu ci picchi sopra, un ferro, un legno. È assurdo perché si mantiene intatta la memoria della lava, del fuoco. Mentre tutte le altre pietre più “fredde” producono suoni altissimi, le puoi strofinare con uno straccio, ci puoi passare un legno sopra: il suono che ne esce è sempre molto acuto e glaciale. Questa cosa mi ha dato da pensare, ho iniziato a riflettere su quale sia il suono naturale della terra. Ho portato avanti una vera e propria ricerca sui suoni di Pinuccio Sciola, ma quei due o tre colpi che sono riuscito a campionare, i colpi che ho registrato dalle sue rocce, sono stati meravigliosi. Ho gli occhi lucidi se ci ripenso ancora adesso. È il suono che cercavo da molto tempo, proveniente da una persona che ha impiegato la sua vita a far suonare la terra.

Sei tornato alle origini, alla base. In passato hai detto che l’ispirazione per i tuoi suoni la prendi anche e soprattutto dalla vita di tutti i giorni, dove “cerchi nuovi gusti”. Quali aspetti della tua quotidianità ti sono stati utili per la composizione di questo disco?
È difficile dirlo, perché a darmi ispirazione è la vita in sé per sé. Può essere conoscere un nuovo amico, o assaggiare una cosa per la prima volta, un frutto strano, o andare al ristorante tipico di chissà quale nazione e mangiare chissà quale piatto piccante. Queste cose ti lasciano un sapore dentro per un po’. E poi quando vado in studio mi porto dentro queste esperienze nuove e cerco di rappresentarle. È difficile spiegare una cosa del genere a parole.

La cosa bella però è che tu riesca a tradurre la piccantezza di un piatto in un beat
Ma è normale quando uno tiene alle cose che fa: le piccole cose della vita ti influenzano per forza nel lavoro che fai.

In questo nuovo disco ci sono un sacco di collaborazioni interessanti: John Wizards, il sudafricano Bongeziwe Mabandla, il duo svizzero basato a berlinese OY e l’italiano HDADD. Tutti artisti molto diversi tra di loro, ma che in qualche modo sono uniti da un elemento attitudinale. Come li hai scelti?
Sì, sono quattro collaborazioni molto diverse tra di loro. Non seguo il cantautorato in generale, ma Mabandla è un cantautore sudafricano che ho sempre seguito e mi è sempre piaciuto perché ritengo abbia un timbro di voce davvero particolare. In lui ho trovato qualcosa di affine. Ho iniziato a seguirlo finché sono andato “a rota”, come si dice, con la sua musica e ho chiesto ad un mio amico di tradurre per me le sue canzoni. Ho scoperto che i testi sono tutti molto spirituali, profondi, una cosa che mi ha fatto appassionare ancora di più. Ero già in contatto da tempo con John Wizards, con il quale Mabandla condivide il management sudafricano, e così ho chiesto se fosse possibile collaborare con lui. Bongeziwe ha sentito la mia musica, ne è rimasto flashato e ha detto “wow, è una cosa completamente diversa da quello che faccio io, ma proviamoci”. E infatti abbiamo tirato fuori un brano che è differente da quello che entrambi facciamo di solito. Si sente anche tantissimo il cantautorato sudafricano, sia per il timbro della sua voce sia per le parole della canzoni. “Nguwe” vuol dire “sei tu”, non è rivolto a una ragazza ma a un Dio che non è né quello cristiano né quello musulmano, piuttosto un’entità più naturale, come se fosse un Dio Sole. Il tutto però è espresso a 170 bpm con una base totalmente eclettica e sparata. È stata una sperimentazione, e siamo tutti e due super fieri di quello che è venuto fuori perché è un suono che di solito non si sente in giro, siamo felici di come abbiamo lavorato.


Per quanto riguarda gli altri featuring: gli OY sono un duo svizzero basati a Berlino, sono sempre stato innamorato della loro musica, è di una semplicità incredibile. Il pezzo che abbiamo scritto insieme si intitola “Hope”, lo abbiamo composto un anno e mezzo fa quando già c’era bisogno di tanta speranza, ora se possibile è ancora più attuale.
L’ultimo feat è invece HDADD, un artista di Milano che fa musica molto legata alla cultura mediterranea e alle colonne sonore italiane degli anni ‘70, riproposte però in maniera moderna. Anche lui l’ho sentito da subito molto vicino, a parte per l’amicizia che ci lega, anche per una questione di “territorio”, perché anche lui lavora musicalmente con l’Italia. L’ho voluto nel disco proprio per dare quest’impronta ancora più forte legata al territorio.

Parlando di collaborazioni: ti va di raccontarci come sei finito a lavorare con Paul Simon al suo ultimo disco? Lui ti ha fatto un complimento da poco: ha detto che fai musica “musica capace di suonare nuova e vecchia allo stesso tempo”.
Ricevere questo complimento da lui è grandioso, stupendo. La nostra collaborazione è iniziata in maniera molto semplice: due anni fa lui mandò una mail al mio manager per farmi sentire delle canzoni del suo nuovo album. All’inizio pensavamo fosse uno scherzo, e invece era incredibilmente vero. Dopo neanche una settimana eravamo tutti in contatto, così ci siamo accordati per incontrarci a Milano dove lui doveva tenere un concerto. Ci vedemmo in una stanza del Four Season, io ero super timido e impallato ma lui fu bravissimo a rompere il ghiaccio da subito. Iniziammo a parlare di gospel, del primo blues del Mississippi che è similissimo ai lamenti che ho campionato io nel sud Italia (a questo punto inizia ad imitarli con la voce, ndr). Se senti i lamenti delle vedove della Calabria e quelle del Mississippi sono identici, è il dolore di aver perso un marito e non sapere più come andare avanti.
Poi mi fece sentire le canzoni del disco e mi disse “di queste cose qui c’è qualcosa che ti piace in particolare, c’è una canzone su cui vorresti lavorare?” io rimasi un po’ interdetto, non mi sembrava vero. Alla fine poi scelsi una canzone e ne ricavai 10 versioni diverse: la prima aveva delle minime aggiunte, la decima invece la stravolgeva, era praticamente un remix. Insomma erano versioni progressivamente sempre più invasive rispetto al suo originale. Ero partito super pessimista e pensavo che non scegliesse niente, o al massimo scegliesse una delle prime versioni con delle modifiche minime. Invece scelse la numero nove. Non solo: dopo un paio di settimane mi scrisse per dirmi che la mia traccia era una delle sue preferite tra quelle alle quali stava lavorando, e mi chiese se volevo mettere mano anche su un’altra canzone. E così ne sono uscite tre. È stata un’esperienza indimenticabile.

Visto che ultimamente sei attento ai suoni che si possono trovare in Italia ti voglio chiedere questo: uno dei tratti distintivi della tua musica è il sincretismo. Anche quando rimani nei confini di un solo paese il tuo suono è talmente legato alla fisicità della terra che sembra che stai campionando robe dall’altra parte del mondo, ed è questo quel che alla fine ti rende unico. In Italia da questo punto di vista siamo molto tradizionalisti, anche se negli ultimi tempi iniziano ad esserci dei suoni “meticci” provenienti dai ragazzi di seconda generazione. C’è qualcosa di nuovo e interessante che stai osservando nel nostro paese?
Purtroppo non sono molto in una fase di ascolto. Però questa cosa che hai detto è meravigliosa, perché finalmente l’Italia sta diventando un paese sempre più multiculturale, una cosa che già solo 20 anni fa sembrava fantascienza. Come è sempre successo nella storia delle culture del mondo, le cose nuove nascono così. Gli schiavi africani deportati in Sud America hanno inventato la samba e la bossa, generi creati a partire dall’unione di culture. Ma il meccanismo funziona anche per cose più moderne, come la jungle che è nata dai giamaicani trasferitisi in Inghilterra. Queste sono cose che danno input diversi e nuovi e una carica incredibile. Suoni nuovi, generi nuovi, culture nuove. È una cosa che in Italia abbiamo un po’ faticato ad abbracciare. Ma le cose stanno cambiando anche da noi, seppur lentamente, e ne sono felicissimo.

 

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L'articolo Clap! Clap! - Suonare la terra e le stelle: Clap! Clap! racconta “A Thousand Skies” di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2017-02-17 12:22:00

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