Ronin s/t 2004 - Lo-Fi, Strumentale, Sperimentale

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Non è difficile proclamarsi eredi dei Calexico. O meglio, Calexico italiani. Non sono necessari il deserto, il confine con il Messico, le strade polverose e bollite dal caldo asfissiante. Nemmeno il passaporto, ovvio.

I Ronin ed il loro deus ex-machina Bruno Dorella, titolare della label Bar la Muerte, hanno affrontato il loro album d’esordio come si affronterebbe un viaggio inseguito da tempo. E nel loro percorso si sono immersi in atmosfere da film, sognando una parte adatta ad un Clint Eastwood (non) qualsiasi o il ciak di Sergio Leone, supportati da un gruppo di amici con i quali hanno diviso soggetto e sceneggiatura. “Ronin” è un disco dall’aria rarefatta e malinconica, che trova il suo terreno fertile all’interno di splendide ballate, come negli unici due pezzi cantati - “I am just like you” (con Sara Lov dei Devics alla voce) e l’emozionante “Mandrake” (questa volta a carico di Mae Starr dei Rollerball, e con Bugo al basso) - o sorprendenti ricorsi al free-jazz (“Calavera”) se non al jazz tout -ourt (“6 a.m. coffee”).

Il resto dell’album si muove con disinvoltura tra scenari degni di un duello sotto il sole cocente, tra fisarmoniche piangenti e violoncelli incastonati tra spazzolature di charleston e chitarre suonate con devozione, quasi come se il nord America fosse una terra promessa. È un disco prezioso questo, fatto da canzoni (canzoni?) semplicemente riuscite. E forse non è un caso che Ronin abbiano voluto aspettare tanto tempo per uscire definitivamente allo scoperto. Da quella manciata di pezzi contenuta nell’EP di più di un anno fa, è nato un capolavoro.

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La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2004-08-01 00:00:00

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