Spesso la terrificante tensione che si nasconde nel voler risultare i più fichi, quelli sempre all’avanguardia e al passo con i tempi, si tramuta nell’esatto opposto. Si diventa delle macchiette, preoccupati da tutto meno che da quella materia artistica che dovrebbe ricevere la maggior parte delle nostre attenzioni. Francesco Fratini non ha questo problema. Il suo atteggiamento, visto dall’esterno, è sempre rilassato: parlando trasmette quella tranquillità tipica di chi possiede la giusta consapevolezza e sicurezza dei propri mezzi. Senza traccia di arroganza. Quella sgradevole tensione fatta d’ansia di chi deve sempre dimostrare qualcosa, lascia il posto ad un’eccitazione sincera e profonda quando si toccano argomenti che lo stimolano e sono di suo interesse.
Francesco è un trombettista nato nel 1990, tra i più interessanti e validi musicisti italiani della nuova generazione, esponente di spicco di quella 'scena romana' di jazz che sta sempre più prendendosi gli spazi che merita anche al di fuori della capitale e dell’Italia, sempre più spesso oltre i confini del suo genere di riferimento. È impegnato in un numero imprecisato di progetti, ma quello che porta il suo nome e in cui sente di esprimersi al meglio è il suo quartetto: formazione che di norma comprende Domenico Sanna al pianoforte, Luca Fattorini al contrabbasso e Matteo Bultrini alla batteria.
Il gruppo ha da poco pubblicato il suo debutto discografico, The Best Of All Possible Words, un lavoro che è un racconto diviso tra le due città di Francesco: Roma e New York, dove ha vissuto, studiato e suonato per cinque anni. Un disco di jazz contemporaneo che in più di un’occasione incontra senza sforzo l’hip-hop.
“Io il disco l’ho registrato quasi due anni fa. Purtroppo i tempi tra etichette e tutto il resto ormai sono questi. È come se fosse un figlio, per cui sei contentissimo ma poi se non ti ci dedichi anima e corpo rischia un po’ di cadere nel dimenticatoio. Però da un disco nascono più cose”. Siamo a San Lorenzo, il quartiere di Francesco. Beviamo un bicchiere di vino, circondati dalla folla rumorosa che non abbandona mai quello che è il quartiere universitario per eccellenza di Roma.
Mentre iniziamo a parlare passa un venditore ambulante; tra le altre cose tiene in mano uno di qui microfoni giocattolo che restituisce la voce distorta e piena di effetti. Ci fa vedere come funziona serissimo, mentre noi sorridiamo incuriositi. “Una volta un disco girava quasi per inerzia, perchè il modo di fruire la musica era diverso. È comunque importante per fissare un momento. Registrando hai un obbligo quasi morale di dire ‘ok, questo l’ho fatto, ora andiamo avanti’”.
Francesco fa parte del collettivo di musicisti AGUS Collective, che dal 2012 organizza concerti jazz di alto livello a prezzi popolari. Io e lui ci siamo conosciuti perchè ha suonato più volte a 'Quadraro in Jazz' ( date un'occhiata a questo articolo), la rassegna che organizzo insieme ad altri ragazzi. Condividendo queste esperienze simili e questa visione del jazz come musica (anche) sociale, con tutta la bellezza e le difficoltà che comporta, la nostra conversazione si sposta presto su quei toni.
“Questo tipo di vita, quella del musicista e, in generale, di chi fa lavori che hanno a che fare con la creatività è una ‘missione’ che non finisce mai. Mediamente con poche ricompense e in più non viene neanche riconosciuta. Ogni tanto penso ‘boh, io a scuola andavo bene, potevo mettermi dietro una scrivania, c’ho trent’anni'”.
Non ha neanche finito di pronunciare quest’ultima frase che già sta sorridendo malizioso. Gli faccio notare subito quanto gli si legga in faccia che a una realtà parallela in cui sia andata così non ci vuole neanche pensare. “La parte più bella e un po’ malata infatti è che non me ne frega proprio un cazzo”. Ridiamo, ma non è una risata leggera. La parola 'missione' non è usata casualmente: c’è una connotazione sacra, è, per definizione, un compito a cui si assegna un valore particolare. Non puoi accendere o spegnere una missione: quel sentimento di spinta, quell’impulso, è sempre e comunque in modalità on. Non è facile da gestire. “Fortunatamente non sono uno di quelli che rimane in mezzo a questi discorsi. C’è pure chi se la vive veramente male, psicologicamente ancor prima che economicamente. Io stesso ho passato momenti di sconforto vero, soprattutto quand’ero più piccolo”.
Se fossimo in un film di quelli che romanticizzano il jazz e i musicisti, qui ci sarebbe una pausa carica di silenzio grave, magari un languido sax in lontananza. Invece siamo in una serata fredda a Roma: i pochissimi secondi di riflessione che si impongono su di noi sono riempiti da un altissimo vociare, qualche urla sgraziata ci riporta subito alla realtà. Elia, che è con noi per fotografare, intuisce il momento e riempie il silenzio annunciando che inizierà a scattare qualche foto.
Decidiamo quindi di tornare alla pura musica. “Se qualcuno mi chiama per suonare la prima cosa di cui gli parlo è il quartetto. Poi ovviamente ho diversi altri progetti, come gli hic. che sono una formazione molto più elettronica”.
Gli hic. sono un trio, formato oltre a Francesco da Nicola Guida al piano, rhodes e synt bass e Fabio Sasso (organizzatore del Gaeta Jazz Festival) alla batteria. Non hanno ancora registrato nulla in via ufficiale; suonano una musica di respiro internazionale con influenze evidenti di hip-hop, soul ed elettronica: mesi prima hanno aperto con successo il concerto dei KOKOROKO, una delle band più interessanti e di successo del nuovo jazz/afrobeat londinese - non sfigurando affatto nel confronto, anzi.
Nel disco del quartetto di Francesco questa commistione tra generi assume una dimensione ancora più eterea, più delicata: ascoltando Daily Quest For Love ad esempio, la strofa rap di Charles Burchell (batterista, produttore e rapper americano trapiantato a Roma) ci coglie quasi di sorpresa; è a tal punto integrata all’interno del ricco contesto musicale che realizziamo solo dopo qualche secondo che qualcuno stia rappando.
“Per me questa commistione tra generi è abbastanza normale essendo stato tanto a New York, dove sono arrivato a vent’anni da super ‘nerd’ del jazz. L’hip-hop lì mi ha fulminato con la stessa forza con cui l’ha fatto il jazz qui quando quando avevo dieci anni. Negli Stati Uniti ovviamente questa commistione tra i generi è a un livello successivo, quasi che neanche le considerano due cose distinte. Di base si parla di due percorsi musicali diversi partiti dalla stessa radice”.
Insisto con lui sull’organicità con cui riesce a far convivere queste due anime, pensando come spesso in Italia 'la strofa rap' sia qualcosa che viene buttata lì in modo spesso forzato, meccanico e del tutto prevedibile. “Penso che qui, come successo per tante altre cose, una volta arrivato in Italia se ne sia persa proprio l’essenza radicale, le radici. Arriva più come estetica, mentre negli Stati Uniti (parlando generalmente, ovviamente ci sono grandi eccezioni) è compresa in modo naturale. Se prendi i rapper, soprattutto un po’ più vecchia scuola, il riferimento al jazz è palese e costante. Sia musicalmente che proprio in modo esplicito attraverso i testi, le interviste. Tanti erano direttamente figli di musicisti jazz".
Un problema, questo della perdita di contesto e di radici di un fenomeno culturale, a cui non è sfuggito neanche lo stesso jazz. “Nonostante il jazz sia molto più radicato in Italia, proprio a livello temporale (rispetto al rap che ha una storia ancora molto giovane) anche lì spesso si smarrisce un po’ la bussola. Questa è l’unica cosa per cui mi considero ‘filo americano’. Andare a New York per me è stato anche il trauma di interfacciarmi con una cultura che io in partenza odiavo. Lì però ho scoperto quanto siano profonde le radici del genere, quanto intrecciate a quell’ecosistema in particolare”.
Quest’importanza data alle origini del jazz è l’esatto contrario di una rivendicazione fuori tempo massimo o della difesa strenua del passato, 'della tradizione'. È anzi il modo, per usare un’espressione molto italiana, di “dare a Cesare ciò che è di Cesare”. Restituire insomma la paternità di un genere musicale ai suoi creatori, gli afro americani, salvaguardarlo da storpiature commerciali svilenti e da appropriazioni indebite, ponendolo così con ancor più forza al centro del dibattito culturale contemporaneo.
Una necessità che nacque già durante gli anni sessanta, quando ad esempio il trombettista Lee Morgan affermava che la parola jazz non gli piaceva perché: “non l’abbiamo inventata noi, ci hanno solo detto cosa significava, proprio come quando ci dicevano che eravamo negri… è la stessa cosa”. Morgan propose di utilizzare la definizione “musica classica nera”. Questa disputa linguistica è continuata nel presente. Recentemente è stata alimentata da un altro trombettista, Nicholas Payton, come mi racconta Francesco: “Ha scritto questo articolo molto interessante, in cui condanna la parola jazz, in quanto coniata dallo storicismo bianco, secondo lui dovrebbe essere chiamata B.A.M., Black Afroamerican Music. Ha fatto un casino lì, destando un sacco di scalpore. Quel che fa è mettere nero su bianco delle sensazioni che provavo anche io, in pratica dice: questa è roba nostra, la potete fare anche voi, anche in Europa, e siete magari anche bravissimi, però si deve chiamare così. Un modo per rivendicare la paternità di questi generi, una cosa che nel tempo si è persa.”
Un modo molto pratico in cui Francesco ha deciso di manifestare la sua doppia anima (rendendo omaggio al genere senza negare la propria identità) è la denominazione bilingue dei brani: nel disco troviamo Ragazzacci (con il sassofono di Daniele Tittarelli) e 163 Humboldt Street, Mente Locale accanto ad Awakening, Slalom G.R.A. subito dopo Brooklyn Bound. Il titolo dell’album è in inglese, ma sulla copertina campeggia una foto del Laurentino 38, un quartiere romano che ha bisogno di poche presentazioni anche al di fuori del raccordo anulare.
“Vivere a New York ti fa anche riscoprire la tua identità culturale in modo molto forte. Io quando stavo a Roma era una cosa a cui non pensavo, anzi, la giudicavo in modo quasi negativo. Lì me ne sono riappropriato”. Anche in questo sentimento di riappropriazione si riscopre la naturale vicinanza tra jazz ed hip-hop: “per me questa sorta di filoamericanismo si traduce esclusivamente in un riconoscimento, nel riconoscere che il genere è nato da e per loro. Una delle cose che mi ha anche fatto così tanto appassionare al rap, dall’old school alla trap, è infatti quell’attitudine rimasta intatta al 'represent': rappresentazione della tua città, del tuo quartiere, della tua comunità. Al di là della questione campanilistica per me è fondamentale perchè lo intendo nella sfumatura comunitaria, sociale.”
Stiamo congelando ed il bicchiere di vino è finito da un pezzo, così decidiamo di spostarci dall’altro lato della strada, davanti ad una storica pizzeria a taglio. Esistono innumerevoli citazioni di musicisti jazz che parlano degli strumenti a fiato in modo umano, come se il suono che emettessero fosse la più intima manifestazione della loro personalità. La loro vera voce. Effettivamente, dovendo descrivere il modo in cui Francesco suona la tromba, ne uscirebbe fuori un ritratto molto simile a quello che ho fatto della sua personalità all’inizio del pezzo: è un fraseggio sicuro di sé, complesso ma non incomprensibile; riflessivo ma anche capace di picchi di estrema vitalità e tracotante solo in modo ironico: una caratteristica molto romana.
“Ci sono tante cose che mi stimolano, tre filoni principali: la roba ‘vecchia’, la tradizione quindi, la musica jazz contemporanea americana e poi la musica fatta da miei amici molto bravi”. È qui che si capisce come quello sulla tradizione non sia un discorso antiquato; ci sono state talmente tante eccellenze e menti geniali nella storia che rapportarcisi rimane lo stimolo più importante: “Finché esiste il repertorio di Miles Davis e John Coltrane io non vivrò tranquillo un solo giorno della mia vita, non sarò mai rilassato. Non mi posso prendere un giorno senza pensare o confrontarmi con una produzione artistica del genere. È quasi un dovere morale, in senso positivo, che ti spinge a migliorarti a studiare e a sviluppare poi il tuo linguaggio”.
Pensando alla sua scelta di tornare a Roma dopo anni di vita newyorkese gli faccio notare che qui nel jazz manca quel tipo di ricchezza e storia musicale da cui essere circondati; forse però si guadagna in rapporti umani. “Noi siamo depositari di un’altra cultura, più sociale, anche politica - su questo non ci piove. Se musicalmente perdiamo ancora qualcosa è per un motivo molto terra terra: lì si ‘chiudono’ come noi non faremo mai nella nostra vita. Il più studioso di tutti noi non competerà mai con il più studioso di loro. Non c’è nessun segreto, il talento e il genio esistono, però quella è gente che semplicemente studia come degli ossessi. Detto questo, io dopo cinque anni non vedevo l’ora di tornare, sia per questioni extramusicali facilmente immaginabili, ma anche musicali: a Roma faccio parte di una comunità che è solida, su cui puoi sempre contare e composta anche da alcuni dei miei migliori amici. C’è un forte elemento di vera e propria fratellanza, al netto delle normali divisioni interne. Lì è difficile che nascano questo tipo di connessioni”.
Siamo tornati a Roma. “Purtroppo oggi in generale si suona meno di anni fa. Prima c’erano jam tutte le sere”. Quest’osservazione è la scintilla giusta per parlare dell’ondata di chiusure e sgomberi di storici locali e luoghi di aggregazione romani. Circolo degli Artisti, il Teatro Valle, DalVerme, Init, Celio Azzurro, Lucha y siesta, la scuola popolare di Musica di Testaccio (oggi riaperta), il Rialto, il teatro stabile del Giallo, il Casale Falchetti di Centocelle. Per non parlare di centri sociali e luoghi occupati, spesso unici avamposti di cultura presenti nei quartieri – specialmente nelle periferie; messi sotto scacco a costante rischio di sgombero, spesso sviluppare un progetto e una programmazione culturale diventa impossibile. Negli ultimi anni la città si sta riempiendo di vuoti culturali dolorosi che, nonostante gli sforzi, non sempre vengono colmati da proposte nuove.
“Anche prima era così, le cose non duravano molto però appena un posto veniva chiuso se ne apriva un altro. Ora sembra essere più dura, si suona di meno e sta proprio a te andarti a cercare gli spazi. Prima ci ‘cascavi’ dentro. Andavi a vedere qualcosa ed era sempre un posto dove si faceva musica per tutta la notte. Questa cosa un po’ si sta perdendo ed è terribile. Si sta affermando con sempre maggior forza un individualismo che poi va ad intaccare parecchio anche la musica, soprattutto dal punto di vista della formazione di un artista. Ci sono tante cose che io sono arrivato a capire durante gli anni proprio grazie alla frequentazione dei locali. Ho imparato a suonare perchè andavo a suonare tutte le sere”.
San Lorenzo è l’esempio perfetto di questa tendenza. Un quartiere storicamente 'rosso', sede di iniziative culturali, locali, redazioni che hanno fatto la storia culturale e sociale della città. Nel tempo si è incattivito, i posti hanno iniziato a chiudere, le organizzazione ad andarsene; oggi rimane solo qualche sacca di resistenza, per il resto è per lo più alcol a buon mercato e una generale sensazione di cupezza. “Io vivo qui da quando son tornato dall’America, sono cresciuto a Pietralata ma uscivo sempre a San Lorenzo. In quel periodo penso di non aver passato neanche un pomeriggio a casa. Oggi in quartiere tira un’aria diversa, un ragazzino non potrebbe mai viverselo come me lo sono vissuto io. È un cambiamento che ho visto riflesso anche negli amici romani, come me nati e cresciuti qui; i romani per strada non ci stanno più”.
Una questione che si farebbe presto a bollare come dovuta a pigrizia, al cambiamento degli interessi e dei tempi, l’invecchiamento: tutte motivazioni in parte valide. La realtà è che sta sempre più venendo meno un’offerta artistica che invogli ad uscire di casa, a incontrarsi e socializzare; una mancanza che come sempre colpisce in primis i più giovani e subito dopo i meno abbienti. “Penso pure che la nostra generazione da un punto di vista sociale e politico non abbia avuto molto a cui aggrapparsi, ha tantissimo sotto altri punti di vista. Anche economicamente non siamo stati fortunatissimi. L’altro lato della medaglia è che alla fine chi ha veramente voglia si ritrova per fare cose, si apre e conquista degli spazi anche tra mille difficoltà”.
Un discorso molto italiano. Tra precarietà economica e difficoltà nel trovare gli spazi di espressione per progetti nuovi e giovani, inevitabilmente iniziamo a parlare di jazz italiano in quest’ottica. “È un ambiente in cui non c’è tantissimo lavoro quindi devi sgomitare. Poi c’è la presenza molto ingombrante della vecchia generazione: parlo di gente di circa una sessantina d’anni. All’epoca si sono trovati a fare jazz in un paese in cui non c’era niente per farlo, quindi da quel punto di vista tanto di cappello. Sono stati molto bravi sia a dare una dignità al jazz italiano che a farlo conoscere. Però erano così pochi che si sono costruiti carriere molto grosse, in un’epoca in cui giravano anche più soldi. Stanno praticamente tutti ancora lì, alla fine l’Italia (quella che ha ‘qualcosa in mano’) in questo è molto pigra, c’è zero ricambio generazionale”.
Francesco ribadisce come fortunatamente riesca a non cadere in un’ottica di pessimismo totale. Il che non vuol dire non essere consci della situazione, semplicemente non lasciarsene sopraffare. Mantenere la giusta lucidità per sviscerare la questione, continuando ad andare avanti: “per quanto mi riguarda i musicisti della ‘vecchia’ generazione spesso hanno dei limiti musicali. Si sono metaforicamente seduti sugli allori. Non li biasimo, perchè chissà, forse mi ci sarei seduto pure io. Quando vedi che non hai tutta questa concorrenza, sei bravo, trovi la formula che funziona, ti compri casa, eccetera. C’è gente che come risultato di ciò suona la stessa roba da venti-trent’anni. Nella nostra generazione è una cosa che mi sembra ci sia molto meno, forse è il lato positivo della ‘fame’ che c’è - metaforicamente e non. Storicamente il jazz è una musica che nasce dalla fame. Paradossalmente questa situazione negativa, si trasmette in senso molto positivo allo sviluppo del linguaggio musicale”.
Siamo persi nella conversazione, così sobbalziamo quando un altro Francesco ci interrompe senza cerimonie. Vuole sapere 'che stamo a fa’. Questo Francesco è un uomo dall’età indefinibile, la pelle dura, l’accento marcato. È una di quelle figuri immortali a metà tra l’ubriacone e il vecchio saggio che popolano Roma, dalle periferie fino al centro: ogni quartiere ne ha almeno uno. Quando gli spieghiamo che stiamo facendo un’intervista e che l’intervistato si chiama come lui, si tranquillizza, dileguandosi subito dopo. Quest’intervento così diretto mi ha riportato alla realtà, trascinandomi fuori dai discorsi intricati e molto specifici affrontati fino ad ora. Riesco a pensare solo a una cosa: ma a uno così, che cazzo gliene frega del jazz? Come si fa a raggiungere una persona come lui e tutta la demografica che rappresenta?
Francesco Fratini sembra leggermi nella mente: “La questione del rapporto. Con il pubblico è un’altra bella gatta da pelare. Penso sempre a quella scena di Caro Diario di Nanni Moretti in cui lui si ferma al semaforo e dal nulla comincia a dire all’automobilista accanto a lui ‘sa cosa stavo pensando? Che io anche in una società più decente di questa mi ritroverò sempre con una minoranza di persone’. Non è snobismo, ma proprio una questione oggettiva: a poche persone piace andare a fondo delle cose, soprattutto quando si parla di musica. Da una parte è una situazione che accetto, per come sono fatto non mi interessa fare i calcoli per guadagnare la fetta di pubblico più ampia possibile. Allo stesso tempo però non ne puoi prescinder: se non ci fosse gente che ogni tanto viene a darmi una pacca sulla spalla, che si gode la mia musica, che torna a casa più felice dopo un concerto e la mette come sottofondo alla propria vita, non mi fregherebbe niente di farlo”.
Devo lasciare andare Francesco, che domani parte per l’India per alcuni concerti. Prima di lasciarci voglio parlare del futuro: dal tono usato fin qui ho l’impressione che questo disco nella sua mente sia stato superato da un pezzo, che sia già al lavoro sul prossimo. Sono curioso su che momento creativo stia attraversando ora, cosa e come stia scrivendo. “Io non mi sono mai trovato a far musica in modo sistematico. Ad esempio la scrittura non l’ho mai approcciata in modo molto tecnico. In generale non sono una persona particolarmente metodica, quindi guardo all’evoluzione musicale come una crescita naturale. Due anni fa io era un’altra persona".
In poche parole si parla di maturazione a tutto tondo, umana prima che musicale: “ora sto in una fase molto selettiva, in cui magari studio e mi lascio travolgere da meno cose (numericamente parlando) però le studio con una profondità che prima semplicemente non avevo. Da una parte sono sempre più tradizionale, almeno nei modelli, mentre nella scrittura funziono al contrario: ogni volta che compongo esce fuori roba che è tutto meno che tradizionale, quasi un processo inconsapevole. Una musica che è fortemente radicata nel presente”.
Prima di salutarci facciamo un ultimo giro a San Lorenzo, per permettere ad Elia di fare ancora qualche foto. Lo scatto più emozionante è quello fatto sotto la Tangenziale Est: un imponente mostro architettonico, rappresentante di un futuro ormai passato. Lo sguardo intenso di Francesco, con il cappello con su scritto Roma, il grigio buio intorno, le luci delle macchine sfocate sullo sfondo. È un po’ riassunto di questa serata, di questi discorsi, del jazz – di questa città grandiosamente decadente che vista così potrebbe essere Roma come New York. Anche Francesco racchiude in sé passato e futuro, ma ha ben poco di decadente. Al contrario, trasmette una fiducia realistica nello stato delle cose: ascoltando la sua musica non si può fare a meno di capire perché.
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L'articolo Francesco Fratini, il migliore dei jazz possibili di Giulio Pecci è apparso su Rockit.it il 2020-03-05 14:28:00
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