Gigi D'Agostino - Gigi D'Agostino e la celebrazione ostinata dei '90: com'è andare a un suo djset nel 2017

Quella di Gigi D'Agostino è stata una serata estremamente democratica, con tutti i suoi pro e i suoi contro. Compreso il fatto che alle volte la democrazia proprio non ci piace.

Sabato 18 febbraio a Milano ci sono vari appuntamenti: la Dark Polo Gang ai Magazzini Generali, per esempio; oppure, da Standards, il festival Fasma, che vede tra i protagonisti Heith e Valerio Tricoli: due musicisti che mi piacciono molto, di cui ho i dischi, che suonano in un posto che conosco bene e dove sono stato tantissime volte, gestito da persone che conosco, che vedrà un sacco di gente che conosco tra il pubblico. Insomma, si può dire a tutti gli effetti che si tratta del “mio ambiente”.

Non a caso, una persona che dello stesso ambiente fa del tutto parte, scoprendo che andavo ad assistere all’all night long dj set di Gigi D’Agostino, mi ha accusato scherzosamente (ma fino a un certo punto) di fare “turismo culturale ironico in ambienti che non mi appartengono”. La mia coda di paglia si è accesa immediatamente, e quindi ci ho tenuto a specificare che è un artista che rispetto e di cui ho dei dischi, e che volevo vedere da un sacco di tempo. Che ci andavo per scriverne e vedere qual è la sua eredità dopo molti anni: chi va a vederlo, com'è l’ambiente.

Che andavo a vedere un dj molto rappresentativo di un certo periodo, di un certo carattere, di un certo mondo, e che inoltre si tratta di un personaggio strano, e per questo interessante: vissuto come gran visir degli zarri ma che parla di sé come di un Grande Artista con le maiuscole. Si tratta di una cosa che comunque ha avuto un'importanza, un'influenza.
Mi sta benissimo che se ne parli in modo laico, mi interessa anche leggerne critiche feroci, non sposo affatto necessariamente tesi filo-trash di esaltazione, però lo ritengo un fenomeno interessante. Sarà che sono cresciuto con quell'approccio lì, di osservazione partecipata ai fenomeni anche popolari, e che non è solo la hit, ma anche tutto quello che ci sta intorno che mi interessa vedere.
In qualche modo quindi trovo che abbia senso il percorso che da Standards, dalla musica “vera” e da un ambiente familiare e conosciuto, porta all’immenso capannone che è il Fabrique, con i paninari fuori, i parcheggiatori abusivi e i banchetti con le magliette taroccate. Verso un mondo in cui non posso che essere, per l’appunto, turista. Per quanto partecipe, per quanto lontano dal distacco ironico, comunque turista.

 

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A mezzanotte la serata è già caldissima: ai partecipanti sono stati distribuiti palloncini bianchi e barre luminose con scritto “Gigi D’Agostino Light” che illuminano la platea come mille flash, creando un effetto molto anni ’90 fatto di luci colorate e pochi cellulari in aria rispetto al solito. Gigi, con la divisa d’ordinanza fatta di cappellino e occhiali da sole, spinge e ogni tanto lancia qualche frase a effetto (“le mani rotolano fino in cielo”), il pubblico è preso benissimo e il locale (molto grande) è affollato ma non strapieno.
Il pubblico è molto più maschile che femminile e l’età media è un po’ più alta di quanto pensassi. Non ci sono i reduci, i 40enni o quelli che lo ascoltavano negli anni d’oro, ma non ci sono neanche i veri giovani: ai 15-18enni di oggi evidentemente di D’Agostino non frega nulla e anche i più tamarri hanno altri idoli da venerare (e siamo sicuri che ai Magazzini Generali sarà pieno di pubblico in quella fascia d’età).
Ci sono invece quelli tra i 20 e i 30 venuti dalla provincia, da qualche festa della birra, quelli che ‘sta roba la sentivano alle medie e se la pompano ancora in macchina, e si fanno le serate revival, cercando ovunque questa musica, che per loro resta la più bella che ci sia.

Se in certi anni e grazie a certi nomi in Italia abbiamo assistito a una sorta di democratizzazione della discoteca, Gigi D’Agostino e la sua estrema popolarità ne sono stati sicuramente tra gli agenti più importanti, e questa è di conseguenza una serata estremamente democratica, con tutti i suoi pro e i suoi contro, compreso il fatto che alle volte la democrazia proprio non ci piace, perché dà voce anche a chi ci piace guardare dall’alto in basso.

È come andare a un matrimonio dei tuoi parenti: c’è il paese reale, quello che non ha mai sentito nominare Valerio Tricoli e non ha in casa neanche un disco della PAN. Ci sono magliette di Sesso, Droga e Pastorizia, pizzetti e pettinature che non vedevi da anni, ci sono quelli del Milanese Imbruttito che fanno le interviste. Non ci sono i veri e propri zarri, quelli cattivi - in tutta la sera non si vede neanche un accenno di rissa, neanche un momento di tensione: sono tutti rilassati e molto contenti. Verosimilmente grazie a poco più che un paio di cocktail, dal momento che non c’è neanche un’atmosfera particolarmente tossica, anzi: è soltanto un azzardo ma potrei scommettere che sia una delle serate in cui è girata meno droga alle quali ho partecipato negli ultimi anni (che questo sia un bene o sia un male decidetelo voi, mi sto limitando a riportare un’impressione).

(foto via)

Mentre i palloncini bianchi cominciano a riempire il soffitto e le barre luminose continuano a roteare (un’amica che vede una mia Instagram Story mi scrive “sembra un concerto dei Cani”, ed è l’unico paragone con il mondo indie che sento in tutta la serata), Luigi Celestino detto Gigi continua a spingere, e ovviamente le sue hit sono quelle che garantiscono i momenti di impazzimento generale. Peraltro, mentre tutto il resto viene mixato, la vecchia volpe porta le sue bombe fino alla fine, fino al silenzio, per lasciare spazio all’acclamazione - spesso espressa anche in forma di coro da stadio.
Il coro da stadio è un vero protagonista della serata: pressoché tutte le canzoni, ovviamente scelte con cura dal maestro di cerimonia, diventano in qualche modo un popopopo. Che si tratti di "Go West" o di un remix dei Coldplay, o di quando verso il finale D'Agostino si spinge in territori lontani dal suo con versioni di "Narcotic" dei Liquido o di "When the saints go marching in", il minimo comune denominatore è sempre il popopopo con cui tutto viene accolto e festeggiato da un pubblico sempre felice di saltare con le mani in aria per celebrare questo rituale.

E in effetti è tutto molto divertente: chi non si diverte a un matrimonio dopo un paio di bicchieri? C’è un senso di partecipazione e di comunità che è quello che da sempre tutte le musiche da ballo ricercano, e che è raro vedere manifestarsi in maniera così palese (ritornando al discorso sulla democratizzazione).
La formula poi è perfetta e semplicissima: le canzoni sono praticamente tutte uguali, nelle loro versioni spogliate - viene in mente il lavoro di destrutturazione effettuato da Senni (che probabilmente potrebbe dire la sua anche su questi suoni oltre che sulla trance). Restano una manciata di cose, un meccanismo chirurgico di decostruzione e ricostruzione di un modello: la cassa, l’hat che accelera, il synth arpeggiato sulle medio-basse, l’ingresso del synth alto e su le mani. Melodie diverse ma sempre gli stessi suoni, le stesse strutture, gli stessi giochi: tutto quello che il pubblico di Gigidag vuole da lui e da questo sabato sera.

(foto via)

Un momento di rottura avviene quando Gigi lancia un pezzo molto diverso da tutto quello che abbiamo sentito fino a lì: "Angel" di Robbie Williams. Lì le cose cominciano a cambiare, si vede qualche luce accesa in più e il presobenismo lascia spazio anche a qualcos’altro, insieme al progressivo abbassamento della gradazione alcolica nel finale della serata.

Si comincia a vedere l’aspetto di malinconia di tutto questo. La Ghost Box, i Broadcast… è tutto bellissimo, sono alcune delle mie cose preferite, ma la nostra hauntology non può che passare da qua: la malinconia italiana più che di paesaggi spettrali è fatta del ricordo di queste serate, della loro coazione a ripetersi, della celebrazione costante e ostinata degli anni ’90 che non finiscono mai. E allora la nostra hauntology non può essere che il ricordo della musica delle giostre, in un paese sopravvissuto a tutto e consapevole che poco altro gli resta.

Il momento cruciale è soprattutto uno: è lì che cade il velo di Maya e la realtà si svela per quella che è, è lì che tutto torna e prende un senso, che le cose si allargano e tutto si abbraccia -  mondi lontani ma vicinissimi. È quando Gigi, quasi in chiusura, piazza "Gli Anni" degli 883. Se c’erano dubbi ora non ci sono più: stiamo assistendo a quel tipo di celebrazione, a quel tipo di illusione. “Il tempo passa per tutti lo sai / nessuno indietro lo riporterà, neppure noi”. Tutti cantano a squarciagola e per stasera va bene così. 
E mentre tutto andava a rotoli, nessuno ci faceva granché caso.

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L'articolo Gigi D'Agostino - Gigi D'Agostino e la celebrazione ostinata dei '90: com'è andare a un suo djset nel 2017 di Federico Sardo è apparso su Rockit.it il 2017-02-18 00:00:00

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