Un Interrail sotto ipnosi con la musica di Àlefe

Sound designer e musicista, nasce a Rieti, poi vola a Bologna e da lì ad Amsterdam, per arrivare a Londra. Una a una ci apre le porte delle sue "Hidden Chamber", dal titolo del suo disco d'esordio

Foto promo
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Ipnotico. Così risulta il primo ascolto di Hidden Chamber, il disco di esordio di Alèfe, musicista e producer, già dietro al suono elettronico così particolare dei Tersø (e di Mr Everett). E proprio il suono, l’ipnotico suono del disco, in uscita l'8 maggio, ti colpisce e ti prende, con questi bassi ossessivi, queste atmosfere taglienti e contemporanee e con uno stile già personalissimo, che, tra le altre cose, lo ha portato a suonare al Macro di Roma, all’I- OpenSound di Matera (in occasione degli eventi legati a Matera Capitale Europea della Cultura) e nella capsule di BASE a Milano.

Alèfe è un “viaggiatore musicale”, in senso metaforico (tra i suoi riferimenti musicali spiccano Björk, Andy Stott, Mount Kimbie e Fever Ray) e anche geografico: è nato a Rieti, oggi vive a Londra, dopo anni ad Amsterdam e prima ancora a Bologna; e per suonare si sposta da anni in giro per l'Europa. Ecco perché gli abbiamo chiesto di raccontarci il su lp d’esordio in un modo particolare: per ogni traccia una città, per ogni canzone un luogo, per ogni pezzo uno spazio ideale e reale. 

OSTINATO – Milano

Il suono è un elemento davvero bizzarro. Anche se non possiamo toccarlo né vederlo riempie le nostre vite. Non solo la musica: il suono. Intendo il rumore, la voce umana, i versi degli animali e tutto quello che attraversa i nostri padiglioni creando significato. Ed avviene tutto in modo talmente automatico che nemmeno ce ne rendiamo conto. Per questo quando proviamo a riprodurla artificialmente la spazializzazione del suono è sempre una grande sfida.

L’anno scorso ho avuto la grande fortuna di fare per la prima volta un live con audio 360° in una struttura chiamata La Capsula, negli spazi di BASE a Milano. Sono stato giorni a studiare il miglior modo di separare gli elementi dei miei pezzi per farli letteralmente girare attorno nello spazio, per avvolgere e disorientare i partecipanti. Partendo da uno dei miei elementi prediletti - la voce umana - ho elaborato sul principio della ripetizione (un Ostinato, appunto) un pezzo che credo meglio di tutti si prestasse a questo adattamento spazializzato. Tante voci e vocine impazzite che schizzano da una parte all’altra della stanza, e la ripetizione ossessiva conduce fino alla liberazione melodica del ritornello. Ostinato.

BLOSSOM – Bologna

Attraversare dei luoghi è qualcosa che facciamo senza neanche rendercene troppo conto. Passare 8 anni della propria vita in una nuova città senza realizzare quanto questa possa diventare una nuova casa è più normale di quanto si creda, ma lo si realizza solamente una volta che la si lascia. Blossom cristallizza l’immagine di Bologna nel momento in cui mi ci trasferii da matricola universitaria studente di Cinema: nuove amicizie, nuovi stimoli e tantissima voglia di creare, ibridare conoscenze e culture. Non c’è una vera e propria origine del pezzo, non ricordo nemmeno quando ho cominciato a comporlo.

Quello che so è che all’epoca ero entrato in fissa con la Juke e la Footwork, questi generi derivativi dell’hip-hop caratterizzati da bpm alquanto sostenuti su cui, a Chicago, crew rivali si sfidavano a colpi di coreografie velocissime di piedi e gambe. Una follia. Ma soprattutto, musicalmente una rivelazione! DJ Rashad, RP Boo, Dj Spinn, Dj Taye sono solo alcuni di quelli che ascoltavo assiduamente e gli incastri di bassi ossessivi con i vocal chopping su Blossom sono figli diretti e illegittimi dello stile musicale di tutti loro.

HANDS – Londra

Ironicamente Hands è stato l’ultima traccia ad entrare nell’album ed il primo singolo ad uscire, prima della release dell’album. Nella mia testa la collego sempre al periodo di transizione dall’Italia all’UK. Qualche tempo fa l’algoritmo di YouTube mi ha casualmente portato ad un video bizzarro: “Musique du Table” è una suite di musica concreta per tre suonatori di mani su tre pezzi di legno amplificati, scritta da Thierry de May in una vera e propria partitura ritmica. La performance è ipnotica e la coreografia delle mani produce dei suoni unici.

Dopo averla ascoltata per appena un minuto, la traccia audio era già su Ableton. Warp, flanger, editing ed ecco che i battiti diventano delle percussioni mattissime. Ero tornato da uno dei miei viaggi a Londra, con la mia ragazza eravamo stati a una serata a Printworks organizzata da Jon Hopkins, con Nathan Fake, Kiasmos e Daniel Avery. Con quel sound nella testa ho portato le percussioni di mani dentro al mondo del clubbing, mischiando con un po’ di vocal samples ed in qualche ora il pezzo era fatto e finito.

GREGOPOLY – Matera

Matera è una terra tanto antica da essere stata addirittura usata come sfondo scenografico da Pasolini nel suo Vangelo Secondo Matteo (come dicevo: ho studiato Cinema). In quel caso doveva raffigurare Gerusalemme, e risulta sicuramente credibile. D’altronde è una città quasi magica, dal panorama talmente unico e senza tempo che non poteva essere altrimenti. A Matera ho trascorso un weekend breve ma intenso l’anno scorso, quando sono stato invitato all’OpenSound Festival a presentare sul main stage alla Cava del Sole un mio pezzo realizzato solo con sample di strumenti tipici lucani (si chiama Arbereshe, per i curiosi è sul mio soundcloud).

Come già spiegato il sampling è la mia passione, e letteralmente tutti i pezzi di Hidden Chamber sono nati da campioni di varia natura. Questo in particolare era di un coro gregoriano che mi aveva girato un amico, l’ho ascoltato mentre camminavo per i sassi, e sembrava assolutamente pertinente a queste grotte senza tempo dove mi trovavo. Era semplicemente perfetto. Poi la continua esposizione alla cassa dritta in quei giorni mi ha fatto mettere in testa l’idea che sarebbe diventato un pezzo ballabile, dritto come una locomotiva. E così è stato. PS la mia parte preferita è il finale distorto.

BEHAVE – Isle of Skye (Scozia)

Behave è il turning point dell’album, è per questo che si trova al centro. Divide simbolicamente Hidden Chamber in due parti: un prima e un dopo. Mi immagino che sia il punto in cui si gira il vinile e riparte il disco, anche se solo virtualmente. Ha una struttura insolita e ibrida, l’ho sempre pensato come il pezzo più magico tra tutti, forse proprio perché è nato da un viaggio nelle terre incantate della Scozia. Una settimana in giro per le Highlands, quasi costantemente sotto la pioggia incessante, a volte lieve a volte torrenziale.

La furia degli elementi in quelle terre è più impetuosa ed impietosa, e costringe ad arrendersi. A un certo punto però, attraversato un ponte, si arriva su un’isola remota: Skye. Ed è come arrivare in un altro mondo. Lì, per la prima volta dopo giorni, il cielo si è aperto ed è apparso il tramonto rosa, arancio e giallo. Ecco: Behave è tutto questo. Parte dal mistero di un’orchestra sintetica, attraversa una landa aspra e solitaria per esplodere in una tempesta torrenziale di voci digitali ma poi, finalmente, si apre con una boccata d’aria fresca in un’oasi calda fatta di acqua e luce (ma anche di buon whiskey).

FOR THE NIGHT – Amsterdam

Una città dove si dovrebbe vivere almeno una volta nella vita è senza dubbio Amsterdam. Un ossimoro idilliaco di posto in cui, incredibilmente, musica elettronica e cultura finalmente convivono serenamente, anzi si nutrono l’un dell’altra. Non a caso durante la Museumnacht (la notte bianca in cui tutti i musei sono aperti e gratuiti) è facile trovare dj set di techno persino dentro le serre del giardino botanico comunale. Venire catapultato in una realtà del genere a vent’anni vuol dire ripensare dalla base non solo la propria vita ma il concetto stesso di società e di cultura. In questo il modello olandese è il migliore.

For the Night nasce da qui: dalle continue nottate infrasettimanali alternate a lezioni all’università, conoscere gente diversa, ogni notte, alterando gli stati e cercando di tenere tutti i pezzi insieme. Ogni notte un locale differente: Paradiso, Melkweg, OT301, il (compianto) Trouw, la lista è infinita. Vivere la cultura del clubbing così come dovrebbe essere è stata un’esperienza life changing, che mi ha fatto anche ripensare la filosofia di produzione musicale, per cui tutto ciò che crei viene proiettato al di fuori della tua stanza -Chamber- per finire in un club virtuale. Da lì in poi è diventata la prova del nove mentale per capire se un pezzo funzionerà.

SANDSTORM – Palermo

Pochissimi posti hanno un’atmosfera tanto densa e definita da essere quasi tangibile. La Sicilia è sicuramente una di questi. Per motivi di tour e di cuore mi sono trovato spessissimo in questa isola ancora per molti versi meravigliosamente selvaggia, e ne ho apprezzato i colori, gli odori e -ovviamente- i suoni. La polifonia cacofonica dei mercati di Palermo è probabilmente unica al mondo, i richiami arabi e africani del dialetto e le melodie ruvide delle grida dei venditori di pesce sono oro per un orecchio attento.

Il clima tropicale di Sandstorm nasce da qui: da un viaggio in barca al largo con un azzurro splendente sopra la testa e un blu misterioso sotto ai piedi. Spaventoso e affascinante per uno come me, nato in terra di montagna, che sente l’acqua come elemento da rispettare con riverenza. L’urlo di coyote è forse un colore di fantasia ma la tempesta di sabbia, quella, è vera.

YMA – Roma

L’epico e l’oscuro, ma anche i treni. In tutta onestà, il fascino della città eterna non l’ho mai davvero subìto. Sono nato poco distante dalla metropoli meno metropolitana d’Europa, eppure non ho voluto mai viverci. Quello che mi rimane delle tante giornate, prima solo pomeriggi e poi con gli anni anche nottate a Roma è sempre un confuso senso di straniamento. Meraviglia sì, la qualità innata di lasciare a bocca aperta ad ogni angolo voltato, sicuramente. Ma soprattutto la convivenza dell’antico, l’eterno col quotidiano. YMA è come Roma: prende il canto primordiale della voce umana e lo porta nella trap più contemporanea facendo in modo che tutto stia miracolosamente in piedi da solo, tutto il tempo.

Il caos, il traffico costante, il rumore di fondo, il beat incalzante, l’ossessione, l’epicità, la storia, l’esasperazione, la distorsione. Si applicano tranquillamente ad entrambi. Una sinfonia caotica che, in qualche modo, vive della sua unicità. Un meccanismo inspiegabilmente funzionante nascosto in piena vista. Per molto è stata per me anche la città di mezzo, tra il centro e il nord. Il fischio che si sente nel pezzo è di un treno alta velocità a Tiburtina.

SHAKE THAT DOG – Rieti

Le piccole provincie sono dei posti pittoreschi dove riposarsi, riconnettersi con la natura o - come avevo scelto di fare io - passare pomeriggi a sperimentare sul suono. Shake That Dog è il pezzo più vecchio dell’album: ho aperto per la prima volta il progetto nell’autunno del 2014 quando, finito l’erasmus ad Amsterdam, ho deciso di fermarmi per qualche mese nella mia città natale, prima di tornare a Bologna. Passavo i pomeriggi principalmente a registrare suoni in giardino per campionarli e trasformarli in synth o beat, in più avevo la fissa di sperimentare con delle acapella trovate in rete. Partendo dal mood che la voce, sdoppiata e pitchata, creava ho costruito questo piccolo mondo un po’ scuro in cui a volte filtrano luminosi synth come raggi di sole, esattamente come succedeva alla sera nella mia vecchia cameretta.

WAYOUT – Torino

Andare a Torino a Novembre è l’unica costante della mia programmazione annuale: non importa dove sarò, mi dico: troverò un modo di arrivare al Club2Club. L’atmosfera, l’organizzazione e soprattutto la selezione musicale sono i fattori determinanti di questo sodalizio personale che ho col festival. Inoltre, riesco ogni volta a scoprire un pezzo in più di Torino e un po’ ho cominciato ad essere affezionato anche ai suoi luoghi e al suo grigio autunnale. Un anno in particolare rimarrà per sempre nella mia memoria, in particolare quella fotografica: era il 2017, l’anno in cui Arca ha portato il suo spettacolo trans-futurista sul palco (appositamente esteso con una passerella) del C2C.

La musica la conoscevo bene. I synth urlanti, talvolta agghiaccianti e fastidiosi, il noise gratuito e il madrigale inaspettatamente caldo e dolce, ma pur sempre inquietante. Quello che davvero ha fatto scattare qualcosa è stato incrociare gli occhi di Doña Arca, scesa dal palco su trampoli con zoccoli, e sostenerlo per diversi secondi. Non avevo mai creduto che potesse essere un’esperienza tanto forte. Il suo suono combaciava integralmente con il suo essere, e in quell’attimo è stato semplicemente evidente. In quel caso non ho voluto cercare una via di fuga. Ho deciso di guardare nel suo abisso, prima di distogliere lo sguardo.

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L'articolo Un Interrail sotto ipnosi con la musica di Àlefe di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2020-05-05 15:56:00

Tag: album

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