Siamo andati a sentire Guè Pequeno all'Alcatraz, ed è stato una figata

Siamo andati alla prima del tour di "Vero": un gran bello show

Guè Pequeno
Guè Pequeno

Le prime due date del tour di "Vero" e all'ingresso dell'Alcatraz i cartelli recitano naturalmente sold-out. Non poteva esserci un prologo diverso d'altronde, da quando Guè Pequeno ha deciso di farsi carico, in maniera inconsapevole, di trascinare fuori dalle sabbie mobili e dalle sacche dell'autoreferenzialità questa storia del rap italiano. Come lui pochi altri o, sarebbe meglio dire, come lui in questo momento nessuno. Bisogna essere senza fette di prosciutto sugli occhi stasera per farsi abbagliare, "avere la visione" come ci tiene a ribadirmi un "guesuita" in mezzo alla folla. Tanti giovanissimi, qualche genitore al seguito, come nell'epopea delle migliori rockstar. Il palco è essenziale, tre grossi led verticali che riflettono i visual, dj in mezzo, batteria da un lato e cascata di synth e tastiere dall'altro. Stop. Nessuna donna sparata dai cannoni, zero baracconate, zero pali per la lap-dance. L'efficacia di Guè si è sempre misurata con la sua capacità di andare dritto al punto. E allora?

Quando le luci si chiudono le prime note sono dei Cor Veleno, "21 Tyson" è il modo per rendere omaggio alla memoria di Primo. Risuona "Pequeno" e Guè si materializza prima sugli schermi e poi assieme alla band sul palco. Il suono è compattissimo, la batteria un martello che permette al groove di permearsi lungo tutta la grandezza della sala. Sfilano in sequenza tutte le hit, da "Le Bimbe Piangono" a "Bravo Ragazzo" e "Figlio Di Dio". Cinque anni (come quelli dal primo disco in solo) per costruire e trasmettere la propria epica personale, che ha una base importante nel passato dei Dogo, ma si presenta, oggi come mai prima, ad un'altezza superiore. Giubba nera con dietro patch del Duomo, capelli raccolti in cipolla rasta, Guè tiene in pugno palco, platea e soprattutto se stesso, con una sicurezza invidiabile. I beat riarrangiati con la band sono tutta un'altra storia: "Fuori Orario" e "Tornare Indietro" ad esempio procedono su un ritmo quasi smooth jazz, "Squalo" e "Bosseggiando" sono veramente deep, la batteria resta l'unica impalcatura a sostenere la voce. Musica nuda. Non risparmia le frecciatine alle radio e alle tv che si rifiutano a passarlo, a Sanremo col quale dice "andremo con un remix di questa" e parte una versione potentissima di "Ruggine e Ossa" con il feat. di Julia Lenti che mette i brividi. C'è tempo anche per le sbruffonate, Emi lo Zio che sale a sbocciare sul palco, "Tuta di Felpa" che è inno e state of mind per tre quarti della sala, come "Mollami", ma sono comunque dei flash, l'intrattenimento cafonal-zarro non corre mai il rischio di intaccare il resto dello show. Passi anche il feat. di Maruego, ancora impacciato a stare su un palco e alcune assenze che si fanno notare (quella punchline de "Il Ragazzo d'Oro" aspettava solo Caneda).

Musica rap italiana portata al next level. Una produzione impeccabile. Guè ha lanciato la sfida, ora sta ai Marracash e ai Salmo pensare a raccoglierla e continuare a scavare il solco, per il futuro e per questa nuova industria di music entertainment sbocciata dal nulla e destinata a conquistarsi il domani. È il periodo delle vacche grasse, come diceva qualcuno, pensiamo a godercelo.

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L'articolo Siamo andati a sentire Guè Pequeno all'Alcatraz, ed è stato una figata di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2016-01-28 00:00:00

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