Partiamo da qualcosa di molto immediato: la copertina del disco. Lo scatto, molto bello, è di Dario Perissutti e dovrebbe rappresentare in sé il passaggio, lo spostamento a un livello medio-alto della storia dei Malota. C'è una donna che fissa lo spettatore negli occhi, in silenzio, con uno sguardo sia severo che giudicante. Ed è una donna, Olga della Go Down Records, la label trevigiana attraverso la quale possiamo sentire il nuovo (enorme, diciamolo) Scapegoat, a spiegarmi il significato: “Rappresenta tutte coloro che sono state, e continuano a essere, vittime dell’ignoranza, della crudeltà e di una cultura”.
Mi piacciono parecchio la resa, la foto e il concept che cela, ha un feeling maturo e professionale se vogliamo, molto più delle grafiche anni '90 e naif del loro passato. Aggiungono i Malota: “Certamente. La donna, nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, è sempre stata vessata e assai spesso considerata l'agnello sacrificale - da qui Scapegoat - delle violenze del mondo. Lo sguardo della donna in copertina anticipa la musica e i testi duri che compongono il disco nella sua interezza. È fuori discussione che, in tutte le epoche, compresa la nostra, le donne siano sempre state vittime, ma anche combattenti essenziali per tutti i cambiamenti sociali”.

Ma si affrettano anche a specificare come, dietro il percorso cromaticamente netto dei loro lavori (B/N al debutto omonimo del 2015, colorato al centro per Космонавт del 2018 e con l'arrivo di Massimino alla seconda chitarra, B/N nel EP The Uninvited Guest del 2021 e per l'ultimo lavoro) non c'è certo una fallimentare ricerca di “felicità” e “piaggeria” in Космонавт come sarebbe facile e superficiale commentare. “Космонавт rappresenta il concept di un viaggio spaziale immerso nei deliri provocati dalle droghe, soprattutto quelle psichedeliche e psicoattive. A prescindere dal nostro ultimo lavoro, tutte le nostre grafiche sono sempre state curate da Mariuz (Roberto Mariuzzo, batteria e voce): è quindi anche la sua visione della nostra musica. Космонавт conteneva sicuramente dei brani che si adattano a un immaginario più colorato e psichedelico”.
Alla maturità grafica ne corrisponde anche una artistica, con un salto comunicativo non indifferente dato da dettagli suggestivi e picchi emotivi multiformi- oltre che da dieci anni di vita vissuta umanamente (oltre che artisticamente) che non si possono ignorare. “Questo disco ha una lunga gestazione. Abbiamo cercato di emanciparci da tutti i canoni del genere, con una consapevolezza più profonda di ciò che proviamo a livello emotivo. Più che in ogni nostro altro lavoro abbiamo comunicato e, di conseguenza, lavorato meglio tra noi. Ciò ha portato a un disco più coeso, con l'anima di tutti e quattro. Così come sicuramente abbiamo pure una maggiore padronanza degli strumenti che utilizziamo e di ciò che vogliamo ottenere dal lavoro in studio”.
La musica dei quattro è una fotografia mistica o, se volete, del degrado di quella crescita caotica e violenta del mondo occidentalizzato che vi capita, ogni sera, al telegiornale, di fissare coi vostri occhi su qualche disastrata bidonville palestinese, non così differente da ogni altra bidonville del mondo industriale semi-occidentale brasiliano, colombiano, messicano. L'orrore per una realtà di disperazione viene trasfigurata in musica che è cupa visione squarciata da fiamme di quotidiana cronaca. È doom, è groove, è sludge: tutto si fonde nel lussureggiante melting pot dei Malota, ma a colpire della musica è soprattutto una rappresentativa memoria storica che i più sembrano (o fanno bene finta) avere dimenticato.

In tal senso, rappresentativo è il primo singolo, Nermin, da cui è stato creato anche un potente video. “La canzone è senza redenzione e speranza. Ci ricorda gli eventi di Srebrenica del 1995, quando uno dei più gravi genocidi del dopoguerra fu perpetrato dalle forze serbe, nell'indifferenza di NATO e ONU. Gridando il nome di suo figlio - Nermin - con gli ultimi brandelli di speranza, Ramo Osmanović lo implora di uscire dal bosco e arrendersi ai serbi, certo che lo avrebbero risparmiato e magari anche rifocillato. Padre e figlio sarebbero invece stati uccisi. Il mondo non ha imparato nulla dalla sua storia passata. Lo vediamo oggi nel genocidio palestinese, perpetrato dal regime nazista-israeliano”.
C'è qualcosa della pasta dei Sepultura di Arise nei Malota di Scapegoat, non tanto musicalmente quanto più ideologicamente, come un potente “No” a molti compromessi. In Italia ci sono state varie scene con questa forma mentis: quella HC torinese, quella wave fiorentina; con Scapegoat sarebbe bello poter iniziare a ipotizzare il germogliare di una scena nu-doom veneta che comprenda Malota, Messa e chi vorrà aggiungersi in questa interpretazione del presente.

Laddove, sentendo questi solchi, sembra di rivivere quelle rinascite del genere post Black Sabbath che già ci sono state negli anni. Neurosis, Unsane, Entombed, Opeth, Paradise Lost, At The Gates, primi Tool, Electric Wizard, Thou, Yob, Cult Of Luna... Ma andando oltre, assemblato e poi cotto in modo diverso. Cotto bene. “Tutte le influenze che citi sono corrette e vogliamo aggiungere i Melvins, tra i big. Tra le band con cui abbiamo il piacere di condividere l’etichetta direi che Veuve sono un ottimo riferimento: nei loro brani convivono elementi di stoner, doom e post-rock. Sul lato più oscuro, invece, i The Sade restano senz’altro i maestri. Hai ragione, in oltre dieci anni di Malota abbiamo le nostre peculiarità e, hai di nuovo ragione, c'è una scena qui in Veneto fatta di gruppi con parecchie caratteristiche musicali comuni e soprattutto reciproco rispetto, supporto. Si promuove la musica dei nostri amici e lo stesso fanno loro con noi. Ma cifrare una scena non sta a noi farlo”.
E lo stoner? Nella storia, se siete attenti lettori di recensioni non vi sarà sfuggito, i Malota sono stati associati anche allo stoner e (soprattutto) agli americani Red Fang: la traccia conclusiva (Until The Next Nuclear Holocaust) sembra mettere le cose in chiaro a chi potrebbe parlare o già parla di un voltafaccia - oltre a un sotteso rinnovato senso d'essere di Malota come entità (secondo l'idea che gli scarafaggi sarebbero tra gli unici a sopravvivere a un'apocalisse nucleare). “Le nostre vere influenze sono extra-musicali: la realtà che ci circonda e le emozioni che ne scaturiscono dettano il mood dei Malota. Non ci interessa essere incasellati in un genere, né compiacere chi si aspetta qualcosa di preciso da noi. Se da un lato le definizioni di genere possono aiutare a indirizzare l’ascoltatore nella ricerca, o capire se una cosa gli può interessare o meno, dall’altro, a volte, ci si trova in imbarazzo a dire “questa cosa è questo”. L’importante è che lo facciamo bene, si tratti poi di stoner, o sludge, o doom. Che risuoni a chi ascolta tanto quanto a noi che lo suoniamo!”.
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L'articolo I Malota suonano ciò che non vogliamo vedere di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2025-12-03 10:30:00

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