Vasco Brondi: “Canto l’Italia di 100 anni fa e quella tra 100 anni”

Questa sera il cantautore si racconterà in esclusiva per Rockit e farà ascoltare per la prima volta le tracce del suo nuovo disco “Paesaggio dopo la battaglia”. Ora ci spiega cosa accadrà durante il live streaming e perché insistendo “dopo le cose saranno anche migliori”

Vasco Brondi pronto per il paesaggio dopo la battaglia. foto di Max Cardarelli
Vasco Brondi pronto per il paesaggio dopo la battaglia. foto di Max Cardarelli

“Ho parlato di più questa settimana che in tutto l’anno precedente”. Vasco Brondi esagera, ma forse non troppo, vista la quantità di tempo che ha passato da solo, tra casa e studio, per scrivere e registrare Paesaggio dopo la battaglia, che è insieme il suo quinto album di inediti, ma anche il primo dopo aver abbandonato il nome Le Luci della Centrale Elettrica. Un disco anticipato da due pezzi molto diversi tra loro come Chitarra nera e Ci abbracciamo, ma soprattutto anticipato da un lungo periodo di chiusura.

Un silenzio, il suo, che si interromperà stasera alle 21.00, quando a Le Park insieme a Carlo Pastore, Vasco Brondi parlerà dell'album e suonerà qualche pezzo prima della sua uscita, che avverrà verso la mezzanotte. Vasco risponderà in diretta alle vostre domande, per un evento unico e irripetibile che segna l'inizio della nostra nuova rubrica Prima, in cui si scopre un disco attesissimo a poche ore dalla sua uscita.

 

 
 
 
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Perché era importante per te raccontare il disco prima che uscisse?

Di solito le vigilie prima dell'uscita di un disco le passavo in qualche libreria a parlarne e a firmare le prime copie, ma quest'anno, come sappiamo, non è proprio possibile. Allora insieme a Carlo Pastore e a voi di Rockit, abbiamo deciso di portare Paesaggio dopo la battaglia in questa forma.

Cosa farai stasera?

Suonerò dal vivo dei pezzi, ascolteremo insieme qualche canzone dal nuovo disco e racconterò un po' di cose, oltre a rispondere alle domande di chi ci segue da casa.

Sei carico per questo nuovo album?

Sì, sto bene. Quando ho finito il disco ero abbastanza piegato, quindi mi chiedevo come avrei affrontato tutta la parte di promozione, invece mi sono ripreso e adesso ho proprio voglia e mi rendo conto che mi sta facendo bene parlarne, anche solo per cambiare il periodo che stiamo vivendo e tornare a condividere qualcosa. È come quando non suono per tanto tempo, anche un paio d’anni e poi mi rendo conto che ho un malessere fisico, che non riesco a individuare, ma che sparisce quando prendo in mano la chitarra. Anche adesso è così. 

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Nell’ultimo anno hai fatto un tour, un disco dal vivo e ora un disco in studio. Non credo siano in molti nel mondo ad aver potuto fare così tante cose...

Quest'estate è stato proprio bellissimo fare quel tour, ce lo dicevamo con i musicisti quando poi è stato richiuso tutto: per fortuna siamo stati in giro quest’estate, è stata proprio una vacanza. È stato un tour rocambolesco che poi è diventato un disco quasi da solo, io ho seguito un po' i mix, però poi è andata abbastanza da sola come cosa. In questi ultimi mesi di chiusura, poi, io ero chiuso in studio quindi ho potuto comunque lavorare. Insieme al disco esce questo diario che si chiama Note a margine e macerie che voleva essere anche un diario di viaggio, ma è un diario di viaggio in un'Italia assolutamente deserta, che attraversavo ogni tanto per andare da uno studio all'altro. È stata un’esperienza anche quella e anche lì ho ringraziato ancora di più la musica per la possibilità che ho avuto di vedere altre persone, di arrivare in studio dopo aver attraversato la A1 deserta e trovare Taketo GoharaFede Dragogna e insieme riscaldarsi attorno alla musica, come un fuoco.

Foto di Max Cardarelli
Foto di Max Cardarelli

È un disco nato nel lockdown?

Qualcosa anche prima, come Chitarra nera e Ci abbracciamo che sono i primi pezzi che abbiamo fatto uscire, ma anche i primi che ho scritto. Quando ho scritto Ci abbracciamo pensavo all’idea di un mondo digitale ed evoluto, ma non abbastanza da poter fare a meno degli abbracci: adesso gli abbracci sono diventati quasi illegali e quindi hanno un valore ancora maggiore. Avevo già buttato giù un po' di idee, avevo iniziato a lavorare alle Canarie, in un posto dove vado ogni tanto. Ero lì a chiarirmi le idee e a sperimentare quando è iniziato tutto. All’inizio là avevano un po’ ignorato la cosa al punto che avevo posticipato il ritorno di due settimane, pensando: 'Aspetto che in Italia si sistemino le cose e torno'. Poi ho capito che la questione era diversa e sono arrivato appena in tempo, due-tre giorni prima che chiudessero tutto. Mi sono chiuso in studio e non sono più uscito fino a giugno. Prima dell’autunno le canzoni erano già fatte e il secondo lockdown è stato il momento della condivisione e degli arrangiamenti: le parti per l’orchestra scritte da Enrico Gabrielli e poi un asse Pianura Padana-New York per le percussioni di Mauro Refosco e i cori con Paul Frazier

Parlando del suo ultimo disco, Motta ha detto che alcune canzoni non hanno retto di fronte a quello che è successo: anche per te è andata così? È rimasto fuori qualche pezzo dall’album?

Per la prima volta sono rimaste fuori tante canzoni: ho fatto praticamente un disco e mezzo e poi, insieme a Fede e Taketo, ho capito che era importante fare questa scelta micidiale di tenere fuori canzoni che avrebbero potuto funzionare molto bene. Non avevo mai lavorato così tanto alle musiche e volevo che ogni canzone avesse un'identità e non ci fossero due Chitarra nera o due Ci abbracciamo. Non è un disco immediato come altri e ho pensato che avendo questa richiesta di attenzione in più fosse giusto offrire un disco compatto, con le dieci canzoni indispensabili, senza aggiungere altre cose. Riguardo quello che dice Motta, è molto interessante: mi piace che lui abbia fatto questa scelta, la trovo molto giusta. Non si può fare finta di niente, anche nei concerti che faremo: non potremo far finta di essere in un festival da 5mila persone quando in realtà sono trecento, a quel punto devi usare quell'intimità e renderla un punto di forza. Così anche per le canzoni: Franco126 è uno dei miei preferiti degli ultimi anni, ma mi è sembrato stranissimo che in uno dei suoi ultimi pezzi parli di stare fuori fino a tardi ("Me ne vado con la giacca sulla spalla, giro l'angolo e in un attimo è già l'alba" - Che senso ha), anche se tutto il disco è molto bello. Mentre scrivevo i pezzi e ci lavoravo, questo pensiero veniva anche a me, ma funzionava anche al contrario, perché non volevo che parlassero di attualità, perché credo che ogni canzone debba contenere un briciolo di eternità, di universalità. Solo Il sentiero degli dei, l'ultima canzone del disco, è una canzone su questo tempo, anche se si limita a rimetterci nella giusta proporzione che poi è quella di sempre, finché saremo sulla Terra come specie umana, ovvero che siamo solo delle 'forme di vita sul terzo pianeta del sistema solare'.

Il presente è entrato anche un po’ in Paesaggio dopo la battaglia?

Sì, anche se lì si sono sovrapposte Italie di altre epoche. Ci sono i partigiani di Fenoglio che corrono giù dalla montagna senza divisa, tra gli spari e poi ci sono i rider che corrono tra le macchine in missione per una multinazionale. C'è l'Italia in rianimazione e quella con le macerie dei terremoti. C'è l'Italia di questo momento, del momento in cui ho scritto la canzone e poi c'è un'Italia che è sempre contemporanea. Poteva essere quella di cento anni fa o quella che sarà tra cento anni.

Questo paesaggio dopo la battaglia come lo vedi?

Credo che inevitabilmente sia un paesaggio diverso. Quando pensavo al Paesaggio dopo la battaglia pensavo a un paesaggio residuo, fatto dalle macerie di quello prima, ma anche a uno completamente nuovo. Anche se proviamo a far finta di niente, a tornare ad abitudini che abbiamo avuto, niente è più come prima. Il paesaggio interno, quello nostro personale e collettivo, ma anche quello esterno sono cambiati. Ogni nostra azione avrà una reazione chimica diversa rispetto alla realtà. Da decenni siamo immersi in un'epoca contraddistinta dall'individualismo e di colpo siamo stati tutti davanti alla stessa cosa, allo stesso evento, anche se poi la situazione in cui lo si è affrontato è diversa, per disparità economiche e di genere che già esistevano. Siamo stati tutti insieme, soli. Tornando al paesaggio che vedremo, adesso inizieranno a succedere cose che ci faranno capire sempre di più la nostra interconnessione, come abbiamo capito che quello che succede in un mercato in Cina può avere una ripercussione su di noi. In Virus, Zizek spiega che senza voli aerei e senza un mondo interconnesso non ci saremmo nemmeno accorti di quando quel vulcano eruttò in Islanda e probabilmente non ci saremmo nemmeno accorti di questo virus. È sempre più chiaro che non possiamo fregarcene di quello che succede altrove, anche da un punto di vista egoistico ci conviene preoccuparcene. 

Foto di Max Cardarelli
Foto di Max Cardarelli

In Due animali in una stanza canti “Non è più come prima, forse è ancora meglio di prima”, che mi ha ricordato quando cantavi “Evviva evviva la deriva economica” in Destini Generali: è fatalismo o fiducia nel cambiamento?

C'è un parallelismo tra le due canzoni, c'è un esultare davanti a una cosa che, nella sua visione più comune, passa per essere negativa. In quel caso era la crisi economica, che ha portato anche degli sviluppi positivi. In questo caso invece è una canzone intima ed è una canzone d'amore strana, perché siamo abituati a sentire canzoni che parlano dell'inizio di un amore o della fine di un amore, invece questa parla della parte in mezzo: non della prima o dell'ultima notte insieme, ma della tremillesima. Siamo tutti alla ricerca di stimoli forti, negli acquisti, nell'intrattenimento e anche nelle relazioni umane e quindi ci interessano il momento bellissimo dell'inizio e quello tragico della fine. In mezzo c'è quella che Ungaretti chiamava la quiete accesa. È ovvio che non è più come prima: todo cambia, come cantava Mercedes Sosa, come dicono i fisici quantistici e come diceva il Buddha duemila anni fa. Noi però siamo qui ancora a insistere, a dire ancora, ancora, ancora, perché forse è ancora meglio di prima. 

Una sensazione che mi è arrivata dal disco è quella di pacificazione, come se avessi sfruttato questo tempo sospeso per chiudere tanti cerchi che avevi lasciato aperto, soprattutto per quanto riguarda alcune relazioni, come quelle che canti in Chitarra nera e Città aperta, ad esempio.

È interessante, mi ci fai ragionare a posteriori per la prima volta. Quelle due canzoni coincidono con la prima volta che ho iniziato a condividere le mie esperienze con gli altri e parlano di rapporti che c'erano nel mio primo disco, di quei quattro amici, di quella persona importante per me, che ho incontrato in quel momento e ho messo in quel disco. E ora sono le stesse persone, riguardate quindici anni dopo. Tra l'altro in una situazione di irrimediabile perdita per Chitarra nera, mentre invece Città aperta ha alla fine la dichiarazione: "Ci sarò sempre per te, attraverso le ere cosmiche, da una vita all'altra, superando leggi fisiche". Non è stato solo il periodo di fermo, è questo lavoro che ti permette e ti obbliga - se vuoi farlo profondamente - ad andare a toccare le cose che hai dentro, per esprimerti e anche per liberartene. Questo disco un po' usciva da solo e quando non sapevo bene cosa scrivere mi dicevo sempre: "Dì la verità". Nella prima canzone c'è la frase: "Siamo qui per rivelarci, non per nasconderci". Questa è la declinazione della mia battaglia personale, che ho attraversato nello scrivere questo disco. È la possibilità di vivere questo mio lavoro in modo autentico, nascondendomi, allontanandomi, per poi tornare e per rivelarmi, per conoscere me stesso e condividerlo con gli altri senza troppi timori.

Uno dei pezzi che mi sono piaciuti di più è Adriatico, che descrive in modo felliniano quello che è il tuo mare: per te che riferimento è la riviera romagnola e tutto il suo mito?

Era un bel po' che volevo fare una canzone che fosse un inno a quel mare Adriatico lì, quello dei miei posti, del Lido degli Estensi, che è un punto a sé, non è ancora riviera romagnola, è ancora Emilia. Ed è un dettaglio non trascurabile (ride, NdR). È la zona in cui sono finito nel viaggio che ho fatto sul Po con Massimo Zamboni, che ho raccontato in Anime galleggianti, quella del Polesine, tra il Veneto e i lidi ferraresi e poi da lì inizia la riviera romagnola, terreno per me inesplorato. Questo mare mi è sempre interessato tantissimo, perché è vissuto in modo incredibile: c'è questa provinciale piena di buchi talmente grandi che ti ci puoi sdraiare dentro e non ti investono. Sono 50-60km e d'estate ci puoi mettere tre ore a farla, perché ci va proprio tutta Ferrara. Mi ricordo di quando sono andato per la prima volta con i miei amici in tenda, senza genitori, a 16-17 anni. Eravamo al Lido delle Nazioni, ma ci sembrava di essere dentro Paura e delirio a Las Vegas per come l'abbiamo vissuta, provando per la prima volta certe situazioni, sentendo la musica in modo così stretto. Ora che ci penso, anche questa canzone c'entra con il discorso che facevamo prima: sono tornato a riguardare con gli occhi di adesso quella situazione lì. Uno degli amici con cui ero andato è quello grazie al quale ho iniziato a suonare: avevo visto lui che suonava in una band e mi aveva detto di prendere un basso, perché era anche più facile da suonare visto che ha solo quattro corde. E io ho iniziato così. Nella canzone c'è questa frase: "che la nostra vita sia splendida come quest'acqua resti torbida" perché lì c'è la bassa marea la mattina e si cammina anche due, trecento metri e l'acqua rimane sempre alta pochi centimetri ma comunque non ne vedi il fondo. È una grande dedica d'amore a questo posto.

 


Un altro aspetto a cui ho fatto caso sono i riferimenti alla maternità e alla paternità: non credo avessi mai parlato di figli in un tuo disco, sbaglio? 

No, credo di no. Questa cosa di scrivere canzoni ti obbliga ad evolverti e a evolvere quello che scrivi. E quello che scrivi alla fine è quello che sta di fianco a te. Rivedere i miei dischi per me è come riguardare documenti di un certo periodo: se un gatto ha sette vite, un musicista ha una vita per ogni disco. E così anche le canzoni hanno cominciato a essere piene di figli, come i miei coetanei. I miei nipoti a casa, i figli di mio fratello, quelli degli amici, discorsi che indubbiamente diventano incentrati anche su quello. Mi interessa molto questa cosa di come le canzoni, indipendentemente dalla mia volontà, continuino a crescere con me.

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Da un punto di vista musicale mi è sembrato il disco più De Gregori, tra i tuoi.

Su De Gregori non lo so, anche se resta un mio riferimento fisso. Io sogno prima o poi di fare un disco con le canzoni come quelle di De Gregori, non so se questo è così, ma è talmente dentro il mio dna che sicuramente qualcosa ci cade dentro. Per me resta una voce portante, non mi stanco mai di ascoltarlo, mi piace tantissimo anche tutta la sua produzione contemporanea, non solo i best of del passato. Per fare questo disco, che era anche il primo che usciva a mio nome, ho reagito circondandomi di persone, per rendere più collettiva la cosa e ho lavorato molto di più sulla parte musicale. Con Fede Dragogna all'inizio non ci siamo detti che avremmo dovuto stupire tutti: l'obiettivo era solo essere autentico e seguire la curiosità. 

Un elemento di novità è il ruolo del pianoforte, che è molto più in primo piano.

Mi interessava mettere il pianoforte più centrale, anche se raramente è portante, forse solo in "Due animali in una stanza", negli altri pezzi fa quasi sound design, diciamo. In generale la voce canta da sola in un ambiente fatto da sintetizzatori, poi abbiamo usato tantissimo i fiati e ho fatto un lavoro lunghissimo sui cori con Paul Frazier. Lui di solito suona con David Byrne, ma è un grande arrangiatore di cori gospel e soul, è abituato a lavorare con voci nere, che quindi hanno un background diversissimo dal mio. Mi interessava molto sentire come si sarebbe rapportato con il mio disco e con riferimenti così diversi. Facendo questo disco ho capito che è necessario conservare e proteggere quel fuoco che ti fa venire voglia di fare musica e uno di questi modi è seguire la curiosità. Poi in realtà il sottotitolo di questo disco è "Il disco dei debiti", perché a forza di seguire questa curiosità è diventato ingestibile e totalmente fuori tempo, con tempi biblici che non so se riuscirò più ad assecondare. Mentre guardavo gli inediti di Ghirri per la copertina, Fede a un certo punto mi ha detto: "Ma ti rendi conto che nello stesso tempo che tu usi per scegliere la copertina, hanno già fatto quattro dischi trap dall'inizio alla fine, masterizzati e mandati in radio?".

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L'articolo Vasco Brondi: “Canto l’Italia di 100 anni fa e quella tra 100 anni” di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2021-05-06 11:05:00

Tag: album

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