Descrizione

Non è certamente il primo Emiliano Mazzoni ad abbinare un'opera artistica al blu. L'hanno fatto in tanti prima di lui: canzonettari e poeti, pittori e cineasti. Ma sono pochi quelli che al blu, anzi al blu profondo, hanno associato parole, suoni e immagini positivi. Così è per “Profondo Blu”, terzo lavoro del cantautore montanaro modenese nato ancora una volta sui 1200 metri di Piandelagotti, a due anni dal precedente “Cosa ti sciupa”, e di nuovo con la produzione di Luca A. Rossi (Üstmamò, Giovanni Lindo Ferretti).

“Profondo Blu” è un disco di ballads, dodici una dietro l'altra col pianoforte molto più al centro che in passato e pochi altri strumenti (basso, chitarra, batteria) a sorreggere la voce al solito vagamente retrò e qui molto sciamanica – uno sciamanesimo da bar, si intenda – di Emiliano. Dodici ballate un po' murder, un po' love, un po' spirituals. Senza un argomento preponderante, ma accomunate da due aspetti fondamentali: un'intensità feroce, essenziale, eppure sempre più accogliente ascolto dopo ascolto, e “una innata bontà, una certa comprensione ed udite udite anche ottimismo”.

Dentro “Profondo Blu” c'è la bontà di chi socializza dopo la morte, come in “Al mio funerale”, incipit che apre un cerchio chiuso da “S. Valentino nella cassa” e il suo “e vada come andrà”. C'è la comprensione insieme cinica e amorosa de “Il meschino”, personaggio che potremmo essere tutti, ma pure la bontà intelligente ed ombrosa di “Senza guai importanti” e la presa di responsabilità di “C’era un giorno ed ero io”. E chi l'avrebbe mai detto che in “L'arte che avrai” (“una canzone agricola” la definisce Emiliano) la bontà possa diventare speranza, una speranza che in “E tutti eran da qualche parte” è un franco augurio di morte a chi le brutture non le combatte ma le persegue. Tuttavia non c'è speranza se non c'è una fede, come quella vitalistica di un annegamento d'amore con un'amante perduta in un “Tiepido mare” o la fede in un mondo dove ogni cosa è a metà e ha bisogno de “La metà” mancante. Una fede che in fondo è la bontà, lì torniamo. Certo, ma quale bontà? La bontà di crederci.

E' forse questo “crederci”, alla fine, la chiave di volta di “Profondo Blu”. Crederci come fede, appunto, ma crederci anche come incantamento, come visione (“E tutti eran da qualche parte e stavan facendo qualcosa, / qualcuno faceva alla buona qualcuno anche alla schifosa”).
Crederci come si crede a una piccola grande profezia di canzoni che magari non si comprendono subito ma ci attraversano le costole e i polmoni e ci lasciano lì, increduli, a crederci. A crederci che nel “Profondo Blu” si sta bene, perché può accadere di tutto, perché abbiamo la possibilità di fare accadere tutto e dobbiamo averne il coraggio. “Siamo in una canzone – dice Emiliano – e possiamo fare il cazzo che ci pare. A me sembra che nelle canzoni si osi troppo poco in genere, pensando al fatto che possiamo far succedere tutto quel che si vuole… se arrivasse un gatto con sei teste con sulla pancia scritto 'buona domenica' a me verrebbe subito voglia di saperne di più”.

E' così Emiliano: uno che quando scrive vuole sempre saperne di più. Immaginatelo in giro per le sue montagne ad annusare l'aria, ad ascoltare i suoni e i silenzi di ciò che esiste e di ciò che non esiste, a succhiare il mistero. Immaginatelo poi tornare a casa e scrivere cose che forse nemmeno lui subito capisce, ma sente. Ecco, tutto questo, e altro che non si può dire, è tuffarsi, bagnarsi, perdersi, vivere e morire dentro il “Profondo Blu”.

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