C+C = Maxigross: "Siamo tornati all'italiano (e a Verona) per ritrovare noi stessi"

"Deserto" è il nuovo disco della band e l'inizio di un nuovo cammino, in cui l'imperativo è fottersene delle logiche di mercato

In occasione dell’uscita del loro nuovo album, Deserto, abbiamo raggiunto i C+ C = Maxigross, band che dopo l’esperienza da solista di Tobjah è tornata con un lavoro corposo, denso e che, come loro stessi ci hanno detto, "non è solo un disco ma soprattutto è il luogo in cui ci siamo persi, ci siamo ritrovati e ora stiamo provando a ripartire da qualcosa".

È il momento di farci raccontare cosa è successo in questo ultimo periodo.

La copertina di Deserto
La copertina di Deserto

Come mai avete deciso di comporre e cantare in italiano Deserto?

Iniziamo bene, grazie. Sul serio. La domanda è per noi fondamentale, e rispondiamo con gioia. Ma per farlo inevitabilmente dobbiamo semplificare una questione molto complessa che di per sé meriterebbe un capitolo a parte. Diciamo che dopo anni in cui abbiamo rivolto la nostra mente e il nostro sguardo verso la cultura anglosassone e statunitense (ispirandoci a sonorità di genere molto settoriali) e cantando prevalentemente una lingua che non ci apparteneva, un giorno semplicemente ci siamo fermati e ci siamo chiesti a chi ci stessimo rivolgendo con la nostra musica. Ci siamo resi conto che cantando in una lingua non nostra che non conosciamo bene ci stiamo limitando: stiamo ponendo un filtro alle nostre emozioni, e quindi emozioniamo meno l’ascoltatore, qualunque lingua egli possa capire.

È stato un ritorno alle origini?

Una nuova consapevolezza, o una rinascita, si può chiamare come si vuole. Stavamo dunque inconsciamente negando le nostre origini a favore di una cultura (quella anglosassone, con la sua musica che ci ha sempre accompagnati nella nostra crescita) che fondamentalmente non è la nostra. Questo è colonialismo. In questo caso colonialismo culturale, ma pur sempre una violenza. Da cui è difficile venirne fuori. Noi siamo orgogliosi delle nostre origini tanto quanto siamo interessati allo scambio, alla contaminazione e alla scoperta di altre culture. E siamo consci che solo con il mescolamento e l’accettazione delle diverse culture l’umanità può proseguire il suo cammino. Questo è un discorso molto complesso e sfaccettato che meriterebbe un approfondimento specifico.

Voi cosa avete provato a spiegare?

Ci tenevamo almeno a spiegare il più chiaramente possibile che la scelta di esprimerci nella nostra lingua madre e di cercare uno stile personale e trasparente senza condizionamenti opprimenti e passivi non è casuale, ma frutto di una lunga e faticosa ricerca nella nostra interiorità e alle origini delle nostre radici. Che è ovviamente appena cominciata. Se Nuova Speranza era l’espressione di un intenzione, Deserto è l’inizio del cammino

 

Al di là di questa decisione, abbastanza capitale, sono stati anni molto particolari e si può pensare anche prolifici per voi in quanto avete collezionato più di trenta date nel tour Deserto per Verona: da dove è nata questa iniziativa?

Gli ultimi due anni sono stati senz'altro prolifici dal punto di vista del lavoro interiore. Capire che non volevamo più essere una band che canta in inglese e suona seguendo estetiche ben precise (psych rock) è stata la nostra prima grande presa di coscienza decisiva. Abbiamo pian piano riservato più tempo per le nostre vite personali, per lavorare a nuove canzoni e a nuovi progetti esterni ai C+C togliendolo al tempo dedicato ai tour. Un'altra delle grandi realizzazioni che abbiamo avuto è che dopo Fluttarn ci siamo pian piano ritrovati distaccati dalla nostra città, dalla nostra comunità, dai nostri amici.

Ed era quello che volevate?

Esattamente l’opposto di quello che volevamo, e che facevamo nei primi anni di concerti. La strategia standard del nostro ambiente musicale ti insegna che nella propria città ci devi suonare poco, devi fare in modo che diventi un concerto esclusivo, e fino a Fluttarn abbiamo seguito questa logica, senza porci tante domande. Ad un certo punto abbiamo capito che noi volevamo suonare per la nostra gente, con la nostra gente, senza seguire strategie. E mai come oggi si parla di Verona a livello nazionale per razzismo, neonazismo, violenza verso le minoranze e bigottismo.

Ed è vero?

Quello che si dice è tutto vero. Quello che però non si dice abbastanza, secondo noi, è che esiste, resiste, sopravvive e si reinventa costantemente anche un’altra Verona, critica, aperta, inclusiva e positiva. Questa è la gente da cui siamo ripartiti. Questi trenta e più concerti che abbiamo fatto in giro per Verona e provincia sono il segnale che queste realtà esistono, hanno tanto da dare e da scambiare, a tutti, nessuno escluso.

Durante il tour avete gettato le basi per Deserto, perché l'assonanza c’è tutta e non solo parlando del titolo.

Deserto è molte cose: un disco, un film, una serie di concerti per la comunità, un progetto artistico realizzato con il contributo di molte persone. Ma soprattutto è il luogo in cui ci siamo persi, ci siamo ritrovati e ora stiamo provando a ripartire da qualcosa. Seminando, innaffiando. Ma la direzione è assolutamente ignota.

 

Sulla vostra copertina c'è una tigre e si tratta della famosa Testa di Tigre di Antonio Ligabue. Come mai avete scelto proprio quest’opera d’arte per la copertina del vostro disco? 

Antonio Ligabue è senz’altro uno degli artisti più famosi del mondo moderno, certamente uno degli italiani più celebri. La scelta è stata dettata dallo stupore e dalla magia che le sue opere ci hanno sempre suscitato. La vitalità dei suoi animali non umani riesce ad andare oltre epoche e stili, ricongiungendosi direttamente con l’inconscio che forse ci accomuna un po’ tutti, e ci lega alla Natura. Il processo che sta dietro a Deserto, il disco, è stato senz’altro viscerale e doloroso, e la potenza di quel ritratto ci è sembrata la maniera perfetta per raccontarlo. Non ultimo, anzi, il monito che Ligabue ci pone senza rivalsa ma con grande sincerità: la Magia e la Bellezza spesso si trovano lontane dalla società, proprio perché una società che giudica e decide chi per essa è sbagliato e diverso oscurandolo, dimenticandolo ed emarginandolo è una società malata, esclusiva e incapace di comprendere quello che un artista puro, lui come moltissimi altri dimenticati, può condividere e donare.

Tra tutte le canzoni contenute in Deserto ci ha particolarmente colpito Radici, proprio per il suo carattere brutalmente essenziale e primigenio. Com’è nato questo pezzo?

Radici sostanzialmente nasce confrontandosi con un concetto molto essenziale riguardante la crescita e la maturazione, volendo citare alcune parole di Hesse "I dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci." 

Abbiamo saputo che dopo l’esplorazione, per così dire, di Verona, siete in partenza per Deserto per il Veneto: è una sorta di extended version del precedente tour o qualcosa di più?

Finito tutto ciò eravamo troppo carichi sia per fermarci con Deserto per Verona che per non far iniziare anche Deserto per il Veneto. Con questo progetto vogliamo riprenderci un pezzettino di quell’identità veneta che da quando abbiamo memoria è bandiera di una certa scuola di pensiero in cui non ci siamo mai riconosciuti.  Come per il precedente tour anche qui si parte senza un’idea di quando finirà: potenzialmente mai. Il resto lo costruiremo strada facendo con le persone che incontreremo. 

Per l’ultima domanda la scelta era abbastanza scontata: ma è vero che sta uscendo un film su di voi sotto la direzione di Stefano Bellamoli?

È vero che stiamo lavorando con Stefano Bellamoli, ma non è incentrato su di noi. Ci avevamo pensato, ma poi gli attori che avevamo scelto per interpretarci si sono rivelati troppo costosi rispetto al budget che avevamo stanziato. Il tutto è iniziato da una storia, un narrazione incontrata per caso, una narrazione senza tempo e forse mai scritta. Lo conteneva e lo contiene tutt’oggi, un’audiocassetta che abbiamo trovato per caso in un mercatino dell’usato come tanti altri a Verona, senza etichette o indicazioni. Una narrazione di cui, ad oggi, non siamo ancora riusciti a risalire ad un’origine e tantomeno a un autore. A questa narrazione è legato tutto ciò che ruota intorno a : una narrazione che ha guidato e ispirato la musica. Una volta ultimate le registrazioni abbiamo capito che ci mancavano solo le immagini. Ci è subito sembrato naturale coinvolgere Bellamoli da noi molto stimato e nostro grande amico. 

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L'articolo C+C = Maxigross: "Siamo tornati all'italiano (e a Verona) per ritrovare noi stessi" di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2019-11-29 11:36:00

Tag: album

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