Dulcamara - Non siamo mica gli americani

Dulcamara, il progetto di Mattia Zani, è uno di quelli che ci ha colpiti di più alla fine dello scorso anno, col suo folk onirico che profuma d'America e grandi viaggi: in attesa di sentirlo al MI AMI 2017, l'intervista

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Dulcamara, il progetto di Mattia Zani, è uno di quelli che ci ha colpiti di più alla fine dello scorso anno, col suo folk onirico che profuma d'America, grandi viaggi e personaggi saggi e antichi. In attesa di sentirlo nel verde dell'Idroscalo, "come dentro un rituale", per citare una sua bellissima canzone, l'abbiamo intervistato. Non perdetevelo sabato 27 maggio al MI AMI Festival.

Una curiosità per iniziare: a cosa ti sei dedicato nei quattro anni trascorsi tra "Uomo con Cane" e "Indiana"?
Ho passato molto tempo ad imparare strumenti che non conoscevo e registrare e arrangiare dischi per altri nel mio piccolo studio, che in fin di conti è la fase che più mi entusiasma, quella della ricerca di un suono, l’idea di un arrangiamento. Nel frattempo, tra gli ascolti di Other Lives, M Ward, Conor Oberst, ho sentito l’esigenza di cercare un suono più che scrivere testi importanti.

Intanto hai realizzato la colonna sonora per "Erasmus 24_7", documentario del collettivo Zero sul progetto europeo di scambio. Da dove nasce la collaborazione e come ti sei approciato a questa avventura?
Il collettivo Zero mi contattò via email qualche anno addietro, perché era arrivato nelle loro mani l’allora mio nuovo disco “Il buio”. Erano molto sulla mia lunghezza d’onda, io ero appena tornato dall’America e loro sentivano il senso della distanza da casa e dell’essere soli all’estero con una missione personale. Infatti la cosa bizzarra è che stavano di base a Berlino e il disco gli era arrivato per vie traverse. Trovammo subito una grande sintonia… Da lì in poi, parlare di partenze e di viaggi ci sembrava ordinario, e mi chiesero di suonare qualcosa per "Erasmus". Incidemmo tutto il suono in diretta sul documentario in play sul multitraccia. Esperienza bellissima.



In "Indiana è ricorrente il tema del viaggio, non tanto nella descrizione di mete e destinazioni, ma come esperienza e attitudine. Che significato ha per te?
In "Indiana" ricorre il viaggio senza una volontà vera e propria. Anzi, è un disco scritto da fermi, con la volontà di viaggiare da fermi, ma il senso del finestrino abbassato e un mondo che sfoca al di fuori è probabilmente radicato in me più di quanto me ne accorga.
Un amico ha scritto una cosa che ho capito in parte, ma credo sia la più vicina al cosmo del disco: "Come nei migliori universi finzionali, l’accesso a una nuova cosmologia è affidato ad alcuni personaggi chiave, metafore, paesaggi, stati di fatto e stati mentali. Ma di pezzo in pezzo si capiscono le regole di questo mondo, se ne mappano le geografie, i laghi, le pianure, i parcheggi, si prende nota della quantità e della qualità delle luci nelle sue frontiere, del tempo che si perde nei suoi terminal."

In più brani fai riferimento anche al sogno lucido (la sesta traccia dell'album si intitola appunto "Sogni lucidi"): citazione cinematografica da "Vanilla Sky" o anche qui un riferimento ad un altro tipo di viaggio?
Non ho mai visto "Vanilla Sky", però credo parli dell’esperienza del sogno lucido. Questo brano l’ho scritto in una notte che ho passato in un motel in Arizona e siccome non riuscivo a prendere sonno, tutto quello che è avvenuto quella notte non credo sia successo veramente e l’ho più volte messo in discussione. Ho avuto la sensazione di avere davvero provato un sogno lucido. Per esempio ho visto un uomo abbandonare la macchina all’alba in un parcheggio di fronte al deserto e incamminarsi a piedi verso il centro del deserto senza tornare indietro. Sono stato in quel motel per una settimana, la macchina è rimasta lì. Non avevo preso droghe (ride).

C’è una fortissima connessione tra natura e identità. Un antico scambio in grado di rendere sincero ogni slancio emotivo. Che rapporto hai con la natura?
Empatico e necessario, ma spesso dimentico la necessità di finirci dentro, però mi viene in mente un verso di Conor Oberst che dice “Tried to lose myself in the primitive, in Yosemite like John Muir did. But his eyes were blue and mine are red and raw” (John Muir è un naturalista che nel primo 900 decise di abbandonare la civiltà per rinchiudersi in un parco e dedicarsi alla natura. Ci riuscì, io forse non ne sarei capace.)

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Parlami della copertina di "Indiana", alla quale davvero non si può resistere senza lasciarsi ispirare e aver voglia quasi di raggiungere quella casa. È un luogo che esiste? Come l’hai pensata?
È una foto che ho fatto dalla macchina mentre giravo per il sud dell’Argentina con mio cugino. Ti ringrazio perché non espongo mie velleità fotografiche, ma amo molto fotografare e ammetto che appena feci quella foto pensai ”non so cosa sarà, ma qualcosa dovrà diventare”.

I tuoi lavori precedenti sono stati caratterizzati da un'evidente impronta folk. In "Indiana" la scelta è subito apparsa ancora più netta a favore dei suoni della tradizione d'oltreoceano. Cosa ha determinato questa ulteriore definizione di stile?
Molti anni di ascolti di musica che non ha pretese di convincimento. Il folk, come disse Dylan, non è una musica rassicurante. Forse amo questo, ma non sposo né l’America, né la sua politica. Il folk in italiano magari è solo un vestito, perché come lingua è troppo importante per farsi portare via da un genere. In effetti è utopia, ci hanno già provato due giganti in questo paese e il risultato è solo “grandi canzoni” ma del genere se ne dimenticano tutti. Ad ogni modo i dischi ammerigani suonano meglio dei nostri, quasi sempre, e sono profondamente più onesti. Aspiro a fare un disco dove non vedo il computer dall’inizio alla fine. Ce la faremo? Prima o poi…

Un altro richiamo che mi pare di scorgere è quello al rap, perlomeno per quanto concerne la metrica e le linee melodiche di alcuni brani. So che il tuo percorso inizia da lì, è qualcosa che continui a portare dentro la tua musica ancora oggi?
Sì, il rap per me è stato importantissimo. Oggi è come un plugin segreto. Lo uso senza nemmeno rendermene conto. Sono cresciuto facendo freestyle e ancora oggi molti testi li imbastisco così, nelle prime ore di vita di una canzone. Mi piace molto uscire dal quadrato di una stesura classica e mettere più parole di quelle necessarie utilizzando la sincope, tipica del rap.



Ascoltandoti si nota immediatamente una particolare attenzione ai testi e alla scrittura. Raccontaci quando scrivi dove sei, quale supporto preferisci, come ti comporti.
Credo che la lingua italiana per quanto complessa, ribelle e forse anche un po’ sbagliata, sia una lingua incredibile. È così precisa e profonda che non basta una vita per usarla correttamente e in maniera efficace. Il suono dell’italiano è così potente a volte che può sovvertire il valore di un accordo e a sua volta “farla scomparire” all’interno di certe melodie è davvero difficile.

“Come disse Jimmy quando andò: ama, viaggia, brucia ora". "Verso Nord" è la mia traccia preferita e vorrei tanto sapere di più su Jimmy, su questa citazione e sul brano in generale.
Jimmy è un barbone con una cultura sconfinata che ho incontrato in viaggio, molti anni addietro. Lo andavamo a trovare io ed un amico tutti i giorni in una stradina dietro casa nostra. Un giorno Jimmy sparì, sad moment. Restano le parole di Jimmy.

Sarai sul palco del MI AMI il prossimo 27 maggio. Immaginerei bene una giornata tiepida di luce filtrata e occhi socchiusi per sentirti suonare. Tu cosa ti aspetti da questa esperienza?
Sono sempre stato un spettatore, quindi mi fa doppiamente piacere esserci. E spero sia una giornata di sole.

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L'articolo Dulcamara - Non siamo mica gli americani di Silvia Cerri è apparso su Rockit.it il 2017-05-16 14:57:00

Tag: MI AMI

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