Selton - I cannibali

I Selton sono partiti dal poeta brasiliano de Andrade per raccontare la storia del mondo: dal personale all'universale, dall'indigeno al globale. La nostra intervista

Tutte le foto sono di Cosimo Nesca
Tutte le foto sono di Cosimo Nesca

I manifesti giganti in Piazzale Loreto o sul Duomo di Milano erano uno scherzo, ma la verità è che nessuno si è stupito più di tanto. La crescita artistica dei Selton è davvero tangibile, e lo dimostra l'ultimo album "Manifesto Tropicale", che prende le mosse da un grande interrogativo che alberga in loro come brasiliani, per raccontare la storia più antica del mondo: la migrazione e l'inevitabile processo che tra influenze culturali e mescolanze etniche sta portando alla creazione di un nuovo mondo, bellissimo e variegato, tutto da scoprire e riscrivere. La nostra intervista ai Selton.

La vostra è veramente una storia di gavetta che ormai conosciamo bene: partiti dal Brasile, poi Barcellona dove suonavate per strada, poi Fabio Volo e poi l'Italia. Secondo voi il concetto di gavetta è cambiato oggi?
Daniel:
io credo che il concetto di gavetta non sia cambiato, la differenza fondamentale è che ora almeno in Italia ci sono tanti progetti che riescono ad avere tanta visibilità e tanto seguito senza aver fatto la gavetta, ma non è che la gavetta abbia meno valore perché uno non l'ha fatta. Per esempio Carl Brave x Franco 126 è un progetto molto bello che quando ha suonato al MI AMI era solo al secondo concerto. L'arrivare ad avere visibilità o seguito non c'entra col valore del gruppo. Il nostro percorso è stato più classico, due anni a suonare per strada e poi tanti tanti concerti ovunque. È vero anche che siamo un progetto un po' particolare, cantiamo in tre lingue, tutti e quattro scriviamo i pezzi. Che un progetto come il nostro non abbia la stessa immediatezza di un progetto più pop ci sembra normale.

Io penso che il vostro sia un progetto profondamente pop...
D: sì, ma pop con una complessità diversa, pop perché non facciamo metal. Prendi anche lo stesso Carl Brave o Coez, o l'ultimo disco di Ghemon: sono progetti che metti in play dalla prima all'ultima canzone ed è tutto molto chiaro. Invece nel nostro ultimo disco ci sono influenze completamente diverse. Solo il fatto di cambiare lingua e stile incide.
Eduardo: non rinneghiamo il nostro lato pop, ma ha ragione Daniel quando dice che il fatto di non essere italiani e di cantare in diverse lingue segna un percorso meno lineare.
Ramiro: ci sono gruppi che riescono a sintetizzare un linguaggio velocemente, e magari la loro gavetta è stata quella di parlare per 10 anni con le persone e cercare di capire cosa fare, e quando l'idea è arrivata è esplosa. 

Una domanda al contrario: di solito si chiede "come ti immagini tra 10 anni?", io invece vorrei chiedervi come vi immaginavate 10 anni fa nel 2017.
D: come gruppo non pensavamo nemmeno di esistere, quando abbiamo cominciato non avevamo l'idea di fare qualcosa insieme, più che altro eravamo partiti con la voglia di suonare per un'estate al Parco Güell di Barcellona, divertirci, e poi ognuno per sé. Solo il fatto di trasferirci tutti insieme in Italia e continuare come band è stata già una grandissima sorpresa.
E: è iniziato tutto in modo bizzarro, facevamo anche degli esercizi chiedendoci: "tra 5 anni dove vogliamo essere?". Se fossimo rimasti in Brasile sarebbe stato più facile, ma tutti i trasferimenti affrontati insieme avevano l'aria del mistero.

Se doveste individuare un momento e uno soltanto in cui avete capito che non eravate più solo 4 amici che volevano divertirsi a Barcellona, ma che eravate diventati una band, quale sarebbe?
Ra: quando suonavamo per strada era tutto spontaneo, ma proprio lì abbiamo cominciato ad accorgerci che i concerti diventavano sempre più belli, c'era tanta gente, ci facevano tante foto, firmavamo autografi... era una fama che durava un weekend perché i turisti cambiavano sempre, però venivamo anche riconosciuti per strada, era stranissimo. Se dovessi dirti un momento chiave è stato quando ci hanno invitati a suonare in un festival in Francia che in cartellone aveva Massive Attack, Jamiroquai, Pixies, e abbiamo trascorso 5 giorni in questo festival incredibile. Poi c'è stata la cosa di Fabio Volo e abbiamo conosciuto i produttori del programma tra cui Gaetano Cappa, che è il responsabile del fatto che siamo qui adesso. Ci disse "Ragazzi, voi siete una band ma non l'avete ancora capito", anche perché all'epoca facevamo le cover dei Beatles, e lui ha iniziato a spingerci a scrivere, ci ha invitati a Milano, ci ha prestato un computer per registrare a casa. Lì abbiamo capito che wow, forse eravamo davvero una band. Poi c'è stato il contratto e tutto il resto.

In una vecchia intervista ci avevete raccontato della divisione dei ruoli all'interno della band, adesso continuate ad occuparvi di certi aspetti?
(ridono tutti) Ra: siamo peggiorati!
D: all'epoca davvero avevamo dei compiti molto precisi, c'era chi guidava e chi teneva gli spiccioli del cappello. Ora abbiamo un po' più di cose da gestire, ci siamo un po' scambiati i ruoli, e lavoriamo tantissimo.

C'è un lusso che prima non potevate permettervi ed era un sogno da realizzare, e invece adesso è la normalità?
D: uno molto molto piccolo, quasi ridicolo: avere un fonico e un driver è una cosa fantastica! Quando siamo partiti nei primi tour facevamo davvero tutto da soli, anche guidare, scendevamo dal furgone e ognuno aveva un compito. Dal parlare col fonico a montare gli strumenti, dal banchetto del merchandising alla cena, ognuno di noi si occupava di una questione. Adesso arriviamo, il fonico fa tutto, il driver monta il banchetto, e noi arriviamo all'esibizione molto più rilassati.

Partiamo dal titolo, "Manifesto tropicale". Ho letto che lo spunto viene dal Manifesto Antropofago del poeta brasiliano Oswald de Andrade. Da definizione del dizionario della lingua italiana, il manifesto è un “foglio di carta che si affigge in luoghi pubblici per rendere noto a tutti ciò che vi è stampato”. Dobbiamo intenderlo come il vostro manifesto artistico, è la legge scritta dei Selton?
Ricardo: Sì, esatto, è un linguaggio che abbiamo trovato per comunicare una cosa abbastanza specifica. È da intendersi in senso sia estetico che artistico, perché credo che questo disco sia quello più rappresentativo fino adesso dei mix e delle contaminazioni che ci caratterizzano e creano una cosa nuova, bella e chiara. In questo senso possiamo sicuramente intendere questo album come il nostro manifesto.


E quali elementi vi hanno ispirati del Manifesto di de Andrade?
Ri
: Il Manifesto Antropofago era, tra le altre cose, una ricerca dell'espressività brasiliana, un tentativo di capire chi fosse il brasiliano o che cultura producesse. Il Brasile è un paese giovane e di culture varie, da quella indigena a quelle europee e africane, in continuo rinnovo. A un certo punto anche altre persone legate a vari movimenti culturali europei si sono espressi riguardo alla cultura brasiliana. Quindi è stata coniata la definizione di “cannibalismo culturale” di cui parla de Andrade, che si riflette non solo nel nostro aspetto fisico, perché i brasiliani sono tutti diversi l'uno dall'altro, ma anche nel cibo, nella musica, nella letteratura. C'è una grande forza espressiva e noi oggi, a Milano, l'abbiamo ripescato per riparlare della nostra esperienza in questi 10 anni in Italia e di come abbiamo vissuto e assimilato alcuni aspetti culturali e di come li percepiamo, passando da un'identità nostra che già di base è mista con il nostro vissuto qui, che speriamo si possa riflettere nelle canzoni.
D: infatti le nostre origini sono le più vaste possibili: il mio cognome (Plentz, ndr) è tedesco, il padre di Ramiro è nato in Egitto, Eduardo è di ascendenza polacca. Abbiamo origini europee e non solo, poi questo mix di culture è arrivato in Brasile, dove siamo nati, ed è tornato qui, in un momento in cui il mondo sta vivendo una contaminazione di culture quasi da post-globalizzazione, dove troviamo Liberato che canta in napoletano e Ghali con i ritornelli in arabo. Il Manifesto Tropicale è il risultato di una cosa che non si può più fermare, cioè una contaminazione di culture che crea il nuovo.
R: a noi interessava toccare questo argomento perché siamo partiti dalla nostra esperienza, ma poi ci siamo resi conto che basta guardare com'è fatta Milano, a Loreto trovi più ristoranti etnici che italiani. Questo è interessante, ci piace l'idea di parlare di questo in questo momento.



Quando fu pubblicato "Inumani" dei Tarm, uscì una recensione in cui in sostanza li si accusava di appropriazione culturale, per via della loro interpretazione della cumbia colombiana. Secondo voi qual è il confine tra appropriazione e cannibalismo? Fermo restando che stiamo usando il termine "cannibalismo" con un'accezione positiva, inclusiva.
E: 
il cannibalismo culturale brasiliano si esprimeva in senso non predatorio. Significava prendere delle cose e utilizzarle per una ribellione anticoloniale, perché il Brasile non aveva una cultura propria e tutto quello che c'era arrivava da fuori. L'unico modo per difendersi era trasformare tutto in qualcosa di proprio, perché non c'era altro. 
D: infatti c'è una discussione molto forte in Brasile sul confine tra le due cose, che arriva anche a domande al limite come: ma se a Carnevale mi vesto da indio, è appropriazione culturale? Capisci che questa è una grande cazzata. Il limite è sempre nello sminuire la cultura da cui stai prendendo influenza. 
Ra: con il colonialismo la cultura indigena brasiliana era stata distrutta, ed era normale a quel punto chiedersi "Chi è il brasiliano?". Ma adesso, soprattutto con tutti gli input che abbiamo a disposizione, con internet, stiamo in continuazione a risignificare le cose che apprendiamo. 
Ri: una delle frasi del Manifesto è “Tupi or not tupi?”. Al di là del gioco di parole, Tupi è una delle tribù più importanti e numerose indigene del brasile, al di là del gioco di parole è una domanda molto valida nella ricerca di chi è il brasiliano.

Infatti nel disco c'è un brano che si chiama proprio così, ed è curioso perché è ricco di citazioni, ma è anche il meno interpretabile.
Ra: è un brano diverso, perché abbiamo voluto prendere in prestito il motto del Manifesto Antropofago, per riflettere ancora una volta su chi siamo noi qui. Sì, poi c'è la citazione di Rihanna, c'è un riferimento a "Loreto Paradiso", c'è il gioco di parole “indie/indio”...
D: io credo che l'altro grande risultato di quel brano sia estetico, perché c'è una melodia molto brasiliana, con una base elettronica che poi diventa un po' rock, e poi un canto che è sì molto brasiliano, però di un'altra epoca, ed è forse anche un po' il riassunto di quello che vogliamo dire a livello estetico. È molto meno songwriting e molto più statement.

Entrando nel merito delle canzoni, il disco in generale è abbastanza maliconico. "Terraferma" racconta la vostra storia?
Ri: "Terraferma" è un esempio interessante di quello che dicevamo prima, cioè raccontare la nostra esperienza attraverso quello che abbiamo intorno a noi. Quel pezzo è molto autobiografico, e quando ho fatto sentire le prime idee, Daniel gli ha dato una chiave di lettura molto più universale: da una parte racconta la nostra storia, dall'altra racconta quello che sta succedendo ovunque a livello di flussi migratori.

Che è sempre stato la normalità ma sembra che non ce lo ricordiamo...
D:
esatto, vicino alla nostra città in Brasile ci sono altre città chiamate Nuova Brescia, Nuova Padova, si mangia la polenta! Adesso c'è un focus sull'Europa, ma la realtà coinvolge molte generazioni, per non parlare dell'origine del mondo.
Ri: c'è una mancanza di coscienza e memoria storica spaventosa, ma è sempre stato così.

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Tornando alle canzoni, la parte parlata di "Sampleando Devandra" da dove viene? Ricorda il famoso monologo “Scegli la vita” di Trainspotting.
D:
non era voluto direttamente, ma sicuramente fa parte del nostro DNA quindi forse inconsapevolemente ne siamo stati influenzati. Devandra è stato un'ispirazione perché è riuscito in una sola frase a fare un riassunto di quello che era un sentimento che sentivamo in quel momento, cioè "Se stai andando via non andare via". Nel racconto di quella canzone dava continuità ai nostri sguardi che osservano il mondo. 

"Jael" parla della morte di qualcuno? Dal testo si direbbe una nonna, non lascia molto spazio all'interpretazione.
D: esatto, parla della morte di mia nonna. Quella canzone ha una storia curiosa perché contiene anche un riferimento a "Saudade", in particolare alla canzone "Seviço Bem Feito", che mia nonna cantava durante le feste di famiglia.

"Bem Devagar" (molto lentamente) è un altro brano molto maliconico. Com'è nato?
D: questa canzone è un ottimo esempio di come lavoriamo, perché ognuno di noi scrive e ha certe idee sugli arrangiamenti, ma dobbiamo sempre trovare un punto comune perché se no diventa una compilation. Da un punto di vista creativo è un esercizio interessante perché dobbiamo non annacquare l'identità di un'idea e allo stesso tempo deve diventare di tutti. Questo pezzo è stato un buon esercizio perché l'arrangiamento è stato fatto molto in studio. Ci sono almeno tre chiavi di lettura di quella canzone. Uno è più di storytelling, la descrizione di due momenti di vita diversi, uno riguarda il perdere una persona (in portoghese) e l'altro trovare una persona (in italiano). E poi c'è una riflessione quasi filosofica sullo stare da soli e sulla sensazione di solitudine che credo sia molto presente in un'epoca di superficialità dei rapporti. È un tema che ritorna anche in "Cuoricinici".

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L'articolo Selton - I cannibali di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2017-09-13 11:52:00

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