L'arte della contaminazione nella ricerca etnomusicologica di Teiuq

Il nuovo progetto di Fabio Di Salvo (metà del duo Quiet Ensamble) è un disco in cui la musica elettronica contemporanea incontra i suoni di minoranze etniche

foo di Elisabetta Di Salvo
foo di Elisabetta Di Salvo

"Wabi Sabi" è il nuovo album di Fabio Di Salvo (metà del duo Quiet Ensemble) che per l'occasione si è ribatezzato Teiuq: nel disco, la musica elettronica contemporanea incontra i suoni di minoranze etniche, in un continuo gioco di ricerca e rimandi. In questa sua opera solista Teiuq indaga i diversi linguaggi dell'arte digitale attraverso un collage di suoni composto da campionature provenienti da canzoni folk e canti religiosi concentrandosi sulle qualità sonore di civiltà e etnie remote, musiche e canti popoari vengono mixati in composizioni contemporanee attraverso l'utilizzo di strumenti elettronici. L'abbiamo intervistato per farci raccontare com'è stato questo viaggio alla scoperta dei suoni del mondo.



Cosa vuol dire “WABI SABI”?
“Wabi Sabi” deriva dal vocabolario giapponese e ha molteplici significati, quello che più mi ha colpito, spingendomi ad utilizzarlo, è stato il concetto di “accoglimento della transitorietà delle cose”. Mi è piaciuto perché mi sono approcciato al progetto con l’idea di creare un album che avesse un giusto bilanciamento tra l'imperfezione di registrazioni, fatte a volte in strada e a volte in studio, ma comunque spontanee, con una struttura più costruita e studiata nei dettagli. Il “wabi sabi” in sostanza è un elogio all'imperfezione, che rende così ogni elemento unico e irripetibile. 

Quando abbiamo ascoltato “WABI SABI”, ancora prima di leggere qualsiasi comunicato o informazione su di te, abbiamo avvertito che dietro le canzoni ci fosse un lungo periodo di studio, soprattutto per assommare le influenze, gli spunti e i rimandi etnomusicali rintracciabili nel disco. Quanto tempo ti ha portato via la parte di ricerca e quanto ci hai messo a comporre/ricercare le tue canzoni?
Teiuq è un progetto che è nato diversi anni fa, ho iniziato la ricerca intorno al 2012, anno in cui avevo fatto i primi viaggi in Asia. Ho cominciato a collezionare materiali, e ad elaborare le prime composizioni che pubblicavo semplicemente su SoundCloud. Nel 2014 ho iniziato uno studio più profondo su questi popoli e culture, e ogni tanto trovavo dei nuovi punti di approfondimento, come etnomusicologi che seguivano una ricerca nei territori di mio interesse, o altri musicisti che portavano avanti una ricerca di musica e contaminazione come quella che sto portando avanti con il progetto Teiuq. Un momento importante fu quando scoprii il lavoro di Laurent Jeanneau, interessante per le aree di ricerca ma soprattutto per le sonorità che è riuscito a registrare. Una volta raccolti tutti i suoni il tempo di lavorazione delle singole tracce è durato poco più di anno.

Teiuq
Teiuq


La selezione degli strumenti secondo quale principio è stata fatta? Timbrico, geografico, storico...?
È stata una ricerca trasversale, iniziata prettamente come una ricerca geografica, per poi passare a quella timbrica. Il fil rouge che lega la stesura dell'album è stata l'emotività sonora di tutti gli strumenti, cercando di creare delle storie musicali traccia dopo traccia.


Dall'unione di queste suggestioni, riusciresti a riassumere in poche righe qual è la storia che vuoi raccontare tu?
Con questo album ho voluto raccontare una storia personale, legata a ciò che mi emoziona di più in termini sonori, per questo mi sono permesso di cambiare alcune timbriche e il mood tra una traccia e un'altra. Il viaggio che si compie con l'ascolto dell’album è lungo, e non è prettamente legato a una zona, a un popolo o una religione in particolare, ma vuole essere una visione dall'alto di tutte queste sonorità unite da una mia visione emotiva più occidentale e più legata al mio personale trascorso.


In passato alcuni esperimenti pop occidentali di recupero o omaggio a certe musiche altre, sono state bollate a torto o a ragione, come “appropriazione culturale”. Tu come ti senti in merito a questo aspetto?
Questo è l'aspetto più delicato del progetto. Mi sono fatto domande su questo argomento numerose volte, e credo che il rischio di realizzare un'operazione in cui la contaminazione non sia bilaterale, in cui a volte, le voci e gli strumenti che si ascoltano in progetti di questo tipo siano state "rubate" dalla strada ed esposte in contesti diversi da quello da cui sono nate, sia reale. Personalmente ho cercato di essere più attento possibile nell'utilizzare sonorità messe a disposizione da popoli con culture lontane dalla nostra, in primis attraverso l’utilizzo di parte dell’archivio dell’etnomusicologo Laurent Jeanneau.
Il prossimo step progettuale che mi piacerebbe realizzare è quello di avere una collaborazione attiva con musicisti e cantanti del sud est asiatico, specialmente giovani. Mi piacerebbe scavare nelle loro sperimentazioni, e ascoltare come stanno reinterpretando le sonorità del loro passato, e con loro avere uno scambio concreto sulla realizzazione di tracce musicali, in modo da definire l'operazione musicale più vicina a una collaborazione più che ad un’appropriazione.

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Hai viaggiato nei luoghi da cui hai preso i suoni? Ci racconti il luogo più bello e quello dove ti sei sentito meno a tuo agio?
Ho viaggiato in alcuni dei luoghi da cui vengono le sonorità dell’album, uno dei luoghi più belli è stato il centro di Gerusalemme, era il periodo della Pasqua ebraica e per le vie dei mercati riecheggiava il canto delle letture del corano. Fu davvero emozionante.
Mentre ci sono state diverse situazioni in cui mi sono sentito meno a mio agio…molte delle volte in cui registro sonorità che mi capita di incontrare, cerco poi di chiedere l’autorizzazione ai soggetti della mia ricerca sonora.

Alcune parti del tuo album sono state registrate presso gli studi di Laurent Jeanneau aka Kink Gong, uno dei più importanti etnomusicologi oggi in circolazione, come ci accennavi. Come sono andate? E perché hai scelto proprio lui per le tue ricerche?
Durante le mie ricerche ho setacciato sul web tantissimo materiale sonoro e avevo trovato una serie di registrazioni interessanti. Approfondendo i risultati mi ero accorto che l’autore di alcune di esse era sempre lo stesso ma con nomi diversi, ossia Laurent Jeanneau e Kink Gong. Avevo trovato materiali pubblicati con l’etichetta Sublime Frequencis, o altri pubblicati direttamente da lui sul suo canale Soundcloud. Quando mi sono reso conto che il territorio di ricerca di Laurent Jeanneau era simile a quello in cui mi stavo cimentando io, decisi di contattarlo, in modo da avere l’autorizzazione per l’utilizzo delle sue registrazioni nelle mie composizioni. Quindi sono entrato in possesso di numerose sue autopubblicazioni, che ho poi utilizzato in numerosi brani dell’album “Wabi Sabi”.

In una delle foto che circolano ti si vede seduto su di una scogliera con un fondale quella che potrebbe essere un promontorio della Liguria come la costiera amalfitana e, perché no, il Golfo di Istanbul: dov’eri e quello scatto ha un qualche genere di significato speciale per te?
In realtà ero a Pozzuoli, a due passi da Napoli. Ho fatto degli shooting fotografici a Napoli, con mia sorella Elisabetta Di Salvo, perché ci tenevo a coinvolgere in qualche modo la mia città di origine. La ricerca verso popoli e culture lontane è molto affascinante, ma è altrettanto affascinante approfondire le proprie origini. Tra i miei progetti futuri c’è anche quello di approfondire le culture musicali partenopee, cercando di trovare una nuova chiave interpretativa contemporanea, dando così il mio apporto creativo a delle correnti culturali musicali antiche e prestigiose.



Lo scorso primo aprile proprio ad Istanbul è iniziato l’International Ethno Music Festival uno dei più importanti festival di musica etnica, latamente intesa, del mondo mediorientale: segui questo genere di festival e se sì l’ultimo a cui vi hai preso parte?
Questi festival sono davvero interessanti, ho avuto la possibilità di scoprire numerose culture musicali altrimenti sconosciute, piccole e grandi che siano. La parte più debole in questi festival è quella più dedicata alla contaminazione, che è ciò che mi appassiona maggiormente. Mixare diversi tipi di musica, o semplicemente reinterpretare alcune correnti è ciò che mi interessa di più, e spero che questa corrente musicale possa avere sempre più spazio anche nei festival di divulgazione culturale musicale come quello di Istanbul.

Com'è il tuo spettacolo dal vivo?
Ho deciso di esibirmi in uno spettacolo semplice, prettamente musicale. Talvolta presento il live con un accompagnamento di luci o video semplice, ossia dei colori reattivi al sonoro che cambiano durante la performance. Non ho voluto realizzare una scenografia più complessa perché non era questo che mi interessava. In realtà sviluppo questo tipo di lavoro da quasi dieci anni con il progetto artistico Quiet Ensemble, il collettivo che insieme a Bernardo Vercelli ci vede protagonisti di numerosi progetti nell’ambito delle arti digitali.

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L'articolo L'arte della contaminazione nella ricerca etnomusicologica di Teiuq di Mattia Nesto e Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2018-05-02 09:57:00

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