Mimosa La terza guerra 2015 - Cantautoriale, Pop

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Disco di donne, ma non per sole donne, impegnato, critico e problematico. Bello.

La terza guerra è un disco di donne, ma non per sole donne.
È un disco impegnato, critico e problematico, nel senso che pone domande senza dispensare banali risposte. Spesso non le dà nemmeno. Maturo, ma non ancora saggio.
È un disco completo musicalmente: passa da un pianoforte che martella ossessivo al ritmo del jazz al pop o a mitragliate di rock, sempre in armonia.
È un disco di forza e personalità: Mimosa, a 28 anni, dopo aver accumulato esperienze artistiche in ambito teatrale e cinematografico, cerca una nuova forma di espressione e la trova nella musica, in un disco che deve tanto alla tradizione musicale al femminile tipicamente italiana: c’è il carattere di Patty Pravo nell’attitudine e la potenza, c’è la problematicità e la musica impegnata di Carmen Consoli nell’affrontare temi difficili con semplicità e naturalezza, e poi c’è uno stile che a tratti ricorda Mina accanto a quello più moderno e schizofrenico che caratterizza Maria Antonietta. Paragoni, vicinanze, ma Mimosa non si esaurisce nell’imitazione, perché ha un suo stile, serio e contemporaneamente ironico, teatrale e recitativo, musicale, armonico.

L’omonima “Terza guerra” è autobiografica, testimonianza di “crisi economica e erotica”, di chi è “figlia del lontano futuro” e “degli anni Novanta”, di chi è disilluso di fronte alla chiusura dei teatri per fare posto a consumistici supermercati, di chi deve combattere una “terza guerra mondiale” per riuscire a vivere, a emergere, a trovare se stessa. E lo dico al femminile perché questo disco è donna, ma è anche universale.
È così che la donna diventa simbolo emblematico dell’era moderna. Donna come individuo in tutte le sue forme e sfumature. Donna emancipata, donna-oggetto, donna incapace di reagire, donna maltrattata, donna triste e rassegnata.
Donna che attraversa una Roma che con tutti i suoi difetti rimane pur sempre magica in luoghi come il Giardino degli Aranci, uno dei posti più belli e suggestivi della città eterna. È qui che Mimosa ha trovato l’ispirazione per il brano “Arance”, un pezzo che mette in musica l’agre profumo d’arancia che si diffonde nell’aria. Ed è così che l’esaurimento dell’odore nell’aria stessa diventa metafora di un dolore (questa volta assolutamente terreno) che si dissolverà come acqua: è la storia immaginata di un uomo in punto di morte che chiede alla sua donna di poter sentire di nuovo, per l’ultima volta, quel profumo d’arancia: "se muoio apri la finestra, voglio sentire odore di arance". Commovente e profumata, uno spettacolo per tutti i sensi.
Ancora più commovente e forte concettualmente è “Fame d’aria”, canzone nostalgica, dedicata a un padre scomparso e sempre desiderato. Intima e sincera, come la ricerca di una figura perduta da ritrovare in oggetti rimasti intatti, che “vive solo nelle cose”, in “fotografie” o “vinili anni ’70” e che ormai può parlare solo attraverso una voce registrata “che non dice più niente”, eppure quella voce continua a “bagnarmi le guance”. Sincera, commovente. E la conclusione al pianoforte è squisitamente perfetta.
Cambia ritmo e cambia tema la successiva “Gli effetti”: psichedelica, ossessiva, schizofrenica e paranoica. È la canzone dei controsensi, dell’ “imparare a pedalare senza bicicletta” o dell’ “imparare a lavorare senza guadagnare”. Condanna di una realtà che si vorrebbe cambiare con “un do maggiore”, in cui “voglio sapere dove è andata a finire la parola diritto” o “il coraggio di osare”.
Una delle migliori, a mio avviso, è la successiva “Fakhita”. Una preghiera profonda e sentita, costruita su un’improbabile “Ave Maria”. La voce, qui, è puntuale, precisa, perfetta. Trascinata come un canto ecclesiastico, urlata nei momenti più forti. Una preghiera a liberarci dal denaro e dal dolore. Due parole legate anche dall’allitterazione che le rende simili, oltre che dalla vita. Breve e comunque non meno intensa, dedicata a tutte quelle donne scomparse, venute da lontano, di cui spesso non si conosce nemmeno il nome, morte in nome di un’indifferenza moderna troppo forte e spaventosa.
“Voglio avvelenarmi un po’” è intossicazione da monossido di carbonio. Allucinogena anche in uno stile vocale più originale e ironico. È la canzone di una donna innamorata che masochisticamente dedica se stessa all’uomo che ama. Perché amare è un po’ come avvelenarsi, pericoloso perché comporta rinunce; è voglia di intossicarsi fino a svenire.
“Bambola” prosegue sulla stessa linea ironica. È la donna-oggetto che non ha più vita propria, anche se viva, quello sì, lo è. È una donna che diventa soprammobile, o latte o salmone dentro al frigo, che non ha più personalità, che non è più individuo.
“Il ragazzo sbagliato” è narrazione dell’innamoramento del “ragazzo sbagliato al momento giusto”, di quando si ha bisogno di relazioni serie e durature e invece si incontra la persona sbagliata. E fa il paio con la successiva “La palestra della scuola”, brano giovanile che dà voce all’amore adolescenziale, espresso dalla semplicità del gesto di stringersi le mani in palestra e che si immagina essere il primo e l’unico di tutta la vita.
Seconda tra le migliori, insieme alla suddetta “Fakhita”, è “Non ero io”. Un brano che cerca di immedesimarsi in una donna sfigurata dall’acido dall’uomo che diceva di amarla, che “chiamava l’ospedale per chiedere scusa”. E l’unico bisogno è quello primario di “tornare a mangiare normale”. La rabbia, l’indignazione, quando l’uomo prende la parola dicendo che “non volevo ammazzarti, volevo solo insegnarti” o “che sei tu a provocare”. Mimosa qui descrive piccoli dettagli solo apparentemente irrilevanti, tipo il fatto di aspettare in tribunale “con gli occhiali da sole” o le “sette operazioni” per tornare a vedere qualcosa. E non ci sono parole, non c’è nemmeno più rabbia. E ci si sente quasi colpevoli di essere vittime. Un brano forte e coraggioso che non ha paura di prendere posizione.
È “Denti” a chiudere questa specie di concept-album al femminile, una canzone che chiede “scusa per tutto questo rumore”, per essere uscita allo scoperto senza veli, senza maschere, senza ruoli da interpretare. Per una volta non più attrice, ma interprete di se stessa. Brava Mimosa.

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La recensione La terza guerra di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2015-10-05 09:41:00

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