The Regal The shade of the human job 2016 - Rock

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"The Shade of the human job" è un album importante perché mostra come tre musicisti possano scrivere qualcosa di nuovo in un genere già così fortemente battuto come il folk-rock.

"The Shade of the human job" è la seconda fatica discografica dei The Regal. Questi tre toscani DOC preferiscono non suonare dal vivo se le condizioni non gli permettono di poter mostrare al meglio la propria musica e allora si chiudono in lunghe sessioni nel Fadiestudio, luogo dove registrano e creano la magia. 
Ma parliamo del disco; dieci brani scritti tutti da Andrea Badalamenti, frontman del gruppo. Si tratta di un album di riflessioni sulla natura umana e su come la società sia peggiorata col tempo. Quello che si evince è una forte vena critica verso la modernità e la perdita di contenuto che, sempre più spesso, travolge l'umanità.
In un momento storico in cui "condivisione e social" sono le parole d'ordine per essere parte del presente, l'essere umano è più solo che mai. Chiuso dentro una stanza di fronte a un computer illuso di essere in piazza a discutere con amici e conoscenti, convinto di cambiare il mondo con un "mi piace", questi perde competamente cognizione di cosa voglia dire (per citare Gaber) la parola partecipazione.

Ecco, se i grandi cantautori degli anni '70 come Bob Dylan e Neil Young (ai quali indubbiamente i The Regal guardano) lottavano contro la guerra e appoggiavano le lotte studentesche diventando portavoce di una generazione insoddisfatta, il trio toscano si scontra con un mostro forse ancora più grande: l'apatia.

È così che Andrea Badalamenti mette uno dietro l'altro brani come "Bomb of piece", "Kimera" e "The Machine". I primi due sono pezzi folk, che preferiscono mantenere delle atmosfere musicali classiche e fedeli al genere. Il terzo, "The Machine", è invece un ottimo esempio di rock sperimentale: non si ferma alla formula classica chitarra, basso e batteria ma sfocia nella psichedelia per rendere ancora più inquietante la macchina (ovvero il Sistema moderno).
Il disco prosegue con alcune ballate intense come "Too much booze (for you)" e "When you could understand". Entrambe non contemplano il lieto fine ma in un disco in cui s'indaga la miseria umana sarebbe stato stonato metterci un happy ending. Nonostante il pessimismo di fondo le due ballad suonano piene di passione, piacevoli da ascoltare e dedicare.
Il disco di chiude con "The house on the tree", un brano complesso che parte con un'intro importante. Il brano dura più di dodici minuti, scelta non poco rischiosa per essere il pezzo di chiusura. L'idea sembra proprio quella di non volersi allontanare dal consueto, dallo schema a cui tutti (musicisti compresi) siamo sottoposti e che accettiamo impassibili. 
The Regal quindi scelgono di chiudere il disco con il brano più lungo, fregandosene delle convenzioni e trasportando l'ascoltatore nel trip più complesso dell'intero disco. Fuori dalla bolla della società moderna. Fuori, a riscoprire l'essenziale. Fuori, con calma, a riprendere possesso del proprio tempo, e a riconoscere l'importanza di dedicare più di dieci minuti ad una canzone. 

"The Shade of the human job" è un album importante perché mostra come tre musicisti possano scrivere qualcosa di nuovo in un genere già così fortemente battuto come il folk-rock. 
The Regal hanno avuto il coraggio di non destrutturarsi e di non cercare di essere qualcosa di diverso da ciò che gli piace solo per andare dietro a delle logiche di mercato. Questo disco è l'esempio di come, anche in un'epoca in cui tutto ha un prezzo, l'anima degli artisti può  rimanere onesta e fedele a se stessa.

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La recensione The shade of the human job di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-10-13 00:00:00

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