Davide Riccio Poesia sonora: poesia con creta 2005 - Strumentale

Poesia sonora: poesia con creta precedente precedente

Davide Riccio è personaggio storico dell’avanguardia torinese, sulle barricate fin dagli anni 80. Figura poliedrica, si divide tra giornalismo e agitprop culturale, poesia militante e ricerche U.f.o. Il disco che spedisce a Rockit, edito dalle produzioni Pezzente che, fedeli alla linea, lo incartano in una fotocopia scritta a mano, è davvero bello.

Non sono canzonette, queste, ma come dice il titolo, si tratta di poesia sonora, anzi, di poesia concreta, con evidente riferimento alla musica concreta che un bel dì del 1950 il compositore laureato Pierre Boulez si prese la briga di inventare. Ecche è la musica concreta, sento già dire da qualcuno là fuori? Ma niente altro che la musica fatta dei rumori. Insomma, senza questo messieur niente Kraftwerk, niente Einstürzende Neubauten, niente Matmos. Sulla scia di Boulez, prese a muoversi mister John Cage, che nel 1952 spinse la musica concreta al suo limite estremo: nel silenzio totale di 4’33”, qui coverizzata da Riccio, si nascondeva l’invito all’ascolto dei rumori che stanno intorno a noi, come musica. Come ha scritto Paul Morley a questo proposito, “Listen (ascoltare) è l’anagramma di silent (silenzioso). Allo stesso modo, tutto è l’anagramma di tutto”. Riflettete su questo aforisma, e il Buddha vi illuminerà. Nell’attesa, sappiate che questa non è un’inutile introduzione, fatta per sfoggiare erudizione, ma premessa necessaria per comprendere questo bel lavoro di Riccio, che non è un disco rumorista, non è un disco di musica pop, e non è nemmeno un disco di poesia in tutto e per tutto, ma un disco in cui la poesia, declamata, si fa musica essa stessa, utilizza musiche e utilizza rumori.

Se la musica concreta è quella di cui ho detto sopra, la poesia concreta, detta con gioco di parole “con creta”, rimanda al concetto di poeta come artefice concreto, che dai materiali concreti del suono (ogni cosa percepibile con almeno uno dei cinque sensi è concreta, come affermano i libri di grammatica) fa poesia così come lo scultore dalla creta modella la sua statua. La poesia concreta è quindi un’attività di manipolazione che crea nuovi punti di vista sul mondo, irriverenti e alieni, spassosi e virtuosi al tempo stesso. Già, spassosi. Perché questo non è un disco palloso e intellettualoide, ma un disco in cui l’intellettualità sa farsi leggera danza nietzschiana sul caos del mondo: liberi di non crederci, ma questo è un disco che si riascolta volentieri.

Ma calma. Cercherò di andare per ordine, nella massa di cose da dire ci sono su questo disco. Date un occhio ai titoli, qui a fianco. È un disco dove c’è di tutto: voci sintetiche da reperto industriale, cover improbabili (John Cage ma anche Charles Baudelaire), composizioni poetiche e composizioni musicali, parodie di D’Annunzio e Leopardi, Ufo e Tibet, l’800 e giorni qualsiasi, tape music su messaggi venusiani. È anche un disco che propone un percorso, come è chiaro dalla disposizione dei brani.

Musicalmente, si va da John Cage al Battiato di “Sequenze e frequenze” via Beatles di “Revolution #9” (“Un’altra poesia”), all’ambient stile Militia (“Whales weep not!”) o Kubrick (“Tibet”), a commistioni tra Chopin, musica concreta e new age incredibilmente evocative (“Voleva che fosse ’800”). Poeticamente, si passa dall’esercizio di bravura di stile barocco alla Giovan Battista Marino nella parodia di D’Annunzio, al grammelot alla Fosco Maraini, a poesie originali che nell’assonanza e negli effetti sonori sembrano trovare la maggior parte della loro ragion d’essere.

In sostanza, cosa ci vuol dire Riccio? Rivelatore, ponderata la somma di cose fin qui elencata potrebbe essere “Ho soltanto seminato”, poesia spassosissima in cui il linguaggio botanico e scientifico sembrano perdere significato e valere solo per il suo suono. Diventano musica per le orecchie, gradevole. E basta. Il linguaggio acquista quindi una sua vanità un’insignificanza che diventano gradevole di per se stesse. È come dire che le cose intorno a noi perdono significato, la loro forma ce le rende gradevoli. E non è questa una delle verità fondamentali della vita quotidiana di oggi? Pensate alle t-shirt, al linguaggio televisivo, ai marchi che apolitticamente (sì, nel senso dell’Apocalisse) ci riempiono fronte e mani, petti, spalle e culi: quanto senso hanno per noi? Nessuno, se non in quanto solleticano i nostri sensi, facendoli godere. Che gusto ci sarebbe ad andare in giro con la scritta “Fijo de puta” addosso, altrimenti? Se è vero, come è vero, che oggi “il media è il messaggio” – per dire una cosa banale ma incontrovertibile – è ovvio che l’assenza di senso/significato diventa senso/significato in quanto gradevole ai sensi.

Riccio non ci vuole dire solo che questo può essere anche molto divertente, cosa che la nostra esperienza quotidiana già c’insegna. Ma vuol dire anche e soprattutto (ecco il senso della parodia di D’Annunzio e Leopardi) che laddove la Tradizione è Muta, gli dei del passato non ci parlano più se non ridotti a borbottii incomprensibili ma gradevoli come musica e soprattutto divertenti, ridicoli in quanto fanno sor/ridere, allora anche chi oggi si pone come Dio e Potere, insomma tutti quelli che fanno la voce grossa e impostata per comandarci, è/sono ridicolo/i. Lo svelamento dell’in/significanza sensuale della Parola, del Verbo, del Comando produce risata e benessere. Insomma, per Riccio non è detto ancora del tutto che la rivoluzione tecnologica, mediatica, culturale (antropologica, avrebbe detto Pasolini) in cui viviamo debba per forza sfociare in una dittatura orwelliana, o in un mondo amMatrixato et similia. Se noi ci poniamo come alieni (ecco il contattista svizzero Meier) che discendono nell’Inferno di una realtà che ci è aliena, fatta di parole che ci sono indifferenti e ridotte a puro suono senza senso, allora potremmo fare un passo più in là e capire che Verbo e Potere nella nostra vita contano davvero poco. Quasi nulla. Viviamo benissimo senza di essi. Ci fanno ridere. La vera rivoluzione potrebbe essere l’indifferenza. Invece, forse sarebbe il caso di ascoltare di più i nostri rumori domestici, che produciamo noi o i nostri vicini: ecco il senso di 4’33”.

In questo caos, facciamoci stelle. E l’umano disumanizzato che pretende di comandarci, voce deformata, metallica e androide, si renderà conto con sgomento che brilliamo lontanissimi da lui, irraggiungibili e alieni: “Mio Dio: è pieno di stelle!” è infatti la frase conclusiva del disco, pronunciata da una voce mostruosamente distorta. Ma è anche inquadrabile in un altro senso, essendo un campione dal film “2010 l’anno del contatto” e insieme una citazione del dantesco “E uscimmo a riveder le stelle” che conclude Inferno, Purgatorio e Paradiso.

Alla fine, potremmo essere noi, i disumanizzati, che alla fine del nostro percorso di liberazione, alzando gli occhi, ci accorgiamo che altri mondi sono possibili, e la Vita tende a portarci lassù. Divertendoci. Olè.

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La recensione Poesia sonora: poesia con creta di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2005-10-11 00:00:00

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