Perché Tenco aveva capito tutto della musica italiana, già nel '67

"In Italia si è vittime del provincialismo perché sanno apprezzare solamente quello che viene dall’estero; ed è un provincialismo per di più apprezzato dalla stampa, dalla radio e dalla televisione. Nessuno fa niente per la nostra musica“.

Luigi Tenco foto rare
Luigi Tenco foto rare - Foto via postmanultrachic.tumblr.com

Uno che fa sempre il tenebroso, che sembra avere un mucchio di problemi. Canta canzoni d’amore dense di desolazione esistenziale. Uno che si becca anche molte censure. Un personaggio schivo ma che non rinnega il successo, anzi vuole un pubblico ampio. Vuole uscire dall’Italia e dal suo provincialismo che – come sostiene lui – fa così male alla musica. Si spara nel tentativo di chiarire le idee a qualcuno, nella speranza che il suo messaggio venga capito

Quelle trombette mettetevele nel culo!
(Roma, Casina Valadier, 31 dicembre 1966)

Un giovane cantante insulta il pubblico che copre la sua musica. Un artista sempre accigliato, che canta canzoni di protesta che oggi fan sorridere ma che allora si beccavano la censura Rai. È Luigi Tenco.

(immagini via

E sì che per gli amici è un tipo allegro, spiritoso, pieno di gioia di vivere, anzi, talmente attaccato alla vita che si fa quattro controlli medici l’anno. Proprio lo stesso che neanche un mese dopo, nella notte del 27 gennaio, nel seminterrato della stanza 219 dell’Hotel Savoy, dopo che la sua “Ciao Amore Ciao” era stata eliminata a Sanremo, si sarebbe sparato un colpo in testa: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro il pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi”.

Un gesto punk assoluto, più di Sid Vicious che spara (per finta) al pubblico in “The Great Rock’n’Roll Swindle”, come Ian Curtis tredic’anni dopo o Kurt Cobain ventisette. Solo che loro avevano il successo, e ne erano schiacciati; erano i portavoce riconosciuti di una generazione, e non volevano esserlo. Tenco né aveva l’uno né era l’altro. Certo, aveva dichiarato “a me i soldi, il successo, non interessano, li lascio a quelli più furbi di me in questo genere di cose”. Ma era vero solo che non gli interessavano tanto da svendere se stesso: “Vorrei avere un pubblico sempre più grande, immenso, tutto quello che con i mezzi industriali di oggi è possibile raggiungere. Esprimere certi stati d’animo, di disagio, di insofferenza, di insoddisfazione è già anche questa una forma di protesta. Io faccio delle canzoni parlando di determinate cose alle quali io credo. Soldi spero di farne. Un po’ ne ho già fatti e spero di farne, ancora di più, capisci, perché uno coi soldi si sente più tranquillo, più libero… E quando li farò non li devolverò all’azione cattolica ma me li tengo e me li mangio. In puttane, in quello che ti pare ma me li mangio io”.

Straordinariamente lucido, straordinariamente attuale, straordinariamente sulle palle ai moralisti allora al potere così come ai profeti molto acrobati della rivoluzione. Ma Tenco era uno vero, che dalla campagna piemontese di Cassine era andato a vivere a Recco a dieci anni, aveva fatto le scuole e cominciato a suonare (da sassofonista) con Bruno Lauzi, Gino Paoli, Fabrizio De André, Giampiero Reverberi, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, insomma il giro che tra Genova e Milano suonava un po’ jazz e un po’ rock’n’roll, nella confusione tipica di metà '50. E quando nel '58 va in Germania come sassofonista di Celentano e si accorge che la gente è tutta per lui, quello bello tanto da scambiarlo per l’Adriano, non si fa problemi: suona come un ossesso, gettandosi a terra, con scene da tarantolato del rock che rubano la scena al divo. E così fa anche nel '65, in una tournée di dieci giorni in Argentina, dove una sua canzone, “Ho capito che ti amo”, è diventata popolarissima. Insomma, il successo gli piace, ci si trova a suo agio. Ma lui invece è uno cui sembra andare tutto male. Il suo primo album, omonimo, del 1962, vede censurate otto canzoni su dieci. È chiamato dal regista Luciano Salce, reduce da due film di enorme successo, come protagonista di “La cuccagna”: ma il film è un flop.

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Rubacuori, s’innamora di una giovanissima e splendida Stefania Sandrelli, allora morosa dell’amico Gino Paoli: lei per noia ci sta, Paoli si spara al cuore (si salva perché una costola intercetta la pallottola, ancora lì, peraltro), Tenco perde tutt’e due. È spesso in tv, ma vende pochissimi dischi. Si sente accerchiato: “Bisogna creare qualcosa, rompere il cerchio che ci soffoca, altrimenti è meglio piantare tutto”. E in effetti dalle prime ballate ancora intrise d’italica tradizione melodica commista al cool jazz di quell’altro ragazzo triste, Chet Baker, alla mistura col beat delle ultime cose, scritte non solo per lui, c’è un progetto: “Quando un Paese riesce a esprimere in chiave moderna una sua musica tipica, per un certo periodo di tempo il mondo intero impazzisce. In Italia, purtroppo, il grosso sbaglio è guardare al mercato mondiale e imitarlo. Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle in un sound moderno, come fanno i negri con i rhythm and blues o come hanno fatto i Beatles che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi, invece di suonare con la zampogna. In Italia si è vittime del provincialismo perché sanno apprezzare solamente quello che viene dall’estero; ed è un provincialismo per di più apprezzato dalla stampa, dalla radio e dalla televisione. Nessuno fa niente per la nostra musica“.

La sua scommessa definitiva è “Ciao, amore, ciao”, Sanremo 67. Com’è finita, si sa. Cosa avrebbe potuto essere Tenco, dopo il '68 in musica? Forse avrebbe seguito la stessa strada dell’amico De André, incrociando canzone d’autore e rock. O sarebbe stato un Battisti più impegnato. Chissà. Intanto, rimangono, più della sua musica, in gran parte assai invecchiata, il suo esempio di primo intransigente indie rocker senza rock, la ricerca di una via nazionale al rock, l’intuizione potente che non si protesta di più parlando del proprio disagio.
Come diceva in “La Cuccagna”: “Quando uno non chiede, magari è perché vuole di più”.

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L'articolo Perché Tenco aveva capito tutto della musica italiana, già nel '67 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2007-08-28 16:32:00

COMMENTI (2)

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  • djpaga 8 anni fa Rispondi

    Luigi Perdonaci

  • utente115926 8 anni fa Rispondi

    Articolo realista. Molto bello.