Yodaman: io sono il grime all'italiana

La sua storia rap parte da Napoli, passa da Londra e arriva a Milano. Abbiamo intervistato il pioniere di questo genere nel nostro Paese, che ci ha regalato il suo ultimo video "T'Appost" in anteprima

Foto di Giulia Cortinovis
Foto di Giulia Cortinovis

La prima volta che ho ascoltato Gioco Sporco di Yodaman ho pensato che una roba del genere non l'avevo mai sentita; nonostante alcune sonorità mi risultassero famigliari (la dubstep l'abbiamo ballata tutti nel 2010), messe insieme così, mixate con quelle sfumature e rappate con un flow che solo i napoletani riescono ad avere, mi sono gasata non poco. Nel corso della sua storia ha sempre rappato in italiano fino a quando non ha intuito che usare il napoletano era la chiave di volta per le basi che lo facevano andare fuori di testa e Gioco Sporco è l'album ufficiale che segna questo debutto solista. 

Nella pratica è rap napoletano su beat grime, ma nella teoria c'è molto di più: anni passati tra le strade della sua Napoli, in mezzo alle persone, tra le correnti musicali che si sono susseguite negli anni, un'idea di comunità e aggregazione che è rara trovare ancora, i negozi di dischi e i vinili che diventano la sua Mecca, l'unica cosa che importa davvero. Quando pensi di aver sentito già tutto, è proprio in quel momento che ti devi ricredere. 

 

Yodaman/Foto di Giulia Cortinovis
Yodaman/Foto di Giulia Cortinovis

Ma insomma a Londra quanto ci hai vissuto?

Questa notizia non so chi l’abbia messa in mezzo, da quando è uscito Gioco Sporco l’ho letta parecchie volte. Io non ho mai vissuto a Londra, ci sono stato parecchi anni fa, ci vado spesso, ma non ci ho mai vissuto. A Londra ci vai per viverti determinate situazioni, come ad esempio il clubbing, che fai più fatica a trovare qui in Italia. Lì è il centro nevralgico di quello che faccio io. 

Come lo spiegheresti il grime? 

Ci sono persone che lo potrebbero spiegare molto meglio di me, c’è chi ci ha scritto pure libri sull’argomento; per esempio Londra Zero Zero:strade bastarde musica bastarda di Lorenzo Fe è molto interessante, parte dal raccontare la società inglese legandola alla cultura rave, all’acid house, all’hardcore. Il grime è un sottogenere della musica elettronica, non certo dell’hip hop, nel suo DNA è selvaggio, viene dal rave, per me è un genere super individualista.

E il rap come ce lo metti dentro? 

Il modo in cui scrivi il rap è la chiave per poter dire di “fare grime”, è una questione di metrica, di flow. Il contenuto è relativo, esistono addirittura pezzi grime dai toni molto più happy di quel che puoi sentire solitamente. 

La tua casa allora è Napoli

Sono nato a Napoli, rione Sanità tutta la mia famiglia è di lì, a Milano ci sono dal 2012, i primi anni sono stati pesanti ma una volta passati i primi tre vai libero. Sono cresciuto tra la provincia e il centro storico, i miei genitori si erano trasferiti a Quarto ad un certo punto, dista quattro miglia dal mare di Pozzuoli. La cultura napoletana mi scorre nel sangue, sono cresciuto con quella, non ho mai avuto altri tipi di contaminazioni durante la mia crescita. In famiglia siamo sempre stati amanti della musica, mio padre ci faceva ascoltare tanto jazz, Eduardo De Crescenzo, dalla classica musica napoletana del '900 alla musica classica. 

Come ti sei avvicinato al rap? 

Ho un fratello maggiore che è sempre stato immerso nella cultura hip hop old school, quella degli anni ’90, ha iniziato facendo graffiti. C’era MTV su rete americana, e io mi sorbivo Wu Tang Clan, Biggie, Big Pun mi rimase molto impresso, uno dei rapper più forti dell’epoca.  Ho iniziato a fare graffiti anche io (ed è stata una fissa che ho avuto per parecchio tempo), ma prima c'è stata la break dance. Mi ricordo i block party che organizzavano i 13 bastardi, a fine anni 90 inizio duemila, Quarto era famoso nella provincia napoletana per le sue jam session di hip hop. Io ero sempre il più piccolo lì in mezzo. Ho iniziato a scrivere le mie cose molto dopo in realtà. E' stata una fase embrionale molto importante per me,  in casa mia grazie a mio fratello l'hip hop si respirava proprio, quel sentimento alla Zulu Nation che con gli anni ho rivalutato tantissimo.

Cosa succedeva in casa? 

Mio fratello si chiudeva sempre in stanza con i suoi amici, che poi era la sua crew, lui è sempre stato uno che stava sul pezzo nella musica, in primis nell'hip hop; io li ascoltavo di continuo, provavo a copiare le rime a scriverci sopra cosa mie e a cimentarmi nelle stesse cose che facevano loro. Nella break dance non ero bravissimo quindi poi sono passato al graffiti. C'è stata una seconda fase nella mia crescita che è stata molto importante: la generazione più grande ad un certo punto occupò uno spazio a Quarto, un ex macello, che non era mai andato in funzione, che diventò non solo un punto di aggregazione di riferimento ma anche uno spazio pieno di jam session, feste, con un fermento creativo enorme. Skillz detector e battle di freestyle iconiche per la zona di Napoli: lì si sfidavano le varie province, tra Aversa, Arzano, quelli di Casoria e ognuno portava il suo stile, si sfidavano le diverse mentalità, le varie situazioni che si portavano dietro dal loro luogo di origine. A Quarto si stava già tranquilli rispetto ad altre province. 

Ma cosa ti piaceva ascoltare?

Io il rap italiano l’ho ascoltato da grande, sono cresciuto con il rap americano, quello proprio al midollo. Biggie, Tupac, Wu Tang Clan, i Sangue Misto come ascolto per me sono arrivati dopo. Poi a un certo punto ci sono stati i Company Flow che facevano un rap molto avanti, fuori dagli schemi per quei tempi e poi gli Antipop Consortium che sperimentavano tantissimo con l’elettronica; è stato lì che ho iniziato a fissarmi su queste cose qua. Mi andavo a cercare le cose più strane, di nicchia, underground. E' stato in quel momento lì che ho iniziato a scrivere seriamente, avevo 17 anni.

Yodaman in redazione/Foto di Giulia Cortinovis
Yodaman in redazione/Foto di Giulia Cortinovis

E fare freestyle?

Le battle di freestyle non erano la cosa che preferivo in assoluto, ma mi ricordo che in quel fermento di battle c’erano anche Oyoshe, Lele Blade, Dome Flame, Clementino che era tra i più grandi di noi. Eravamo dei fissati della musica, è così che ho iniziato poi a produrre anche i miei primi beat. 

L'idea di aggregazione è sempre presente in quello che mi racconti 

Sì per noi l'hip hop, il rap è sempre stato un pretesto per fare comunità, stare insieme, scambiarsi idee. Per esempio per diverso tempo ho frequentato lo SKA, un centro sociale nel centro storico di Napoli, dove militavo nel progetto musicale con un collettivo bello grosso, avevamo rimesso a nuovo un seminterrato e ne avevamo tirato fuori una sala prove, ognuno poteva fare il proprio genere dal rock, al punk, al rap. Mentre con OFFICINA 99 (altro centro sociale) il progetto era uno studio di registrazione: tutti quelli che non avevano un cazzo di niente potevano venire là e registrare quello che volevano. 

 

La drum'n’bass e la dubstep quando arrivano?

Con mio fratello Deadroom e Pablò (un altro rapper di Quarto), dopo Comunicattivi (ndr. il duo rap di cui Yodaman fa parte per qualche anno) avevamo fondato gli Urban Snakes, dove facevamo rap sulla dubstep: era una roba che veniva dall’Inghilterra, Salmo stava iniziando a farla in Italia. Quando mi sono trasferito qui a Milano sono entrato in una crew che poi si è chiamata The Hooderz, un’unione di varie teste di gente che faceva drum' n’bass e dubstep che mi ha aperto concretamente a questo mondo. 

Hai un riferimento ben preciso? 

Chi mi influenza e continua a farlo è Wiley, pezzi come Eskimo, Igloo tutti quei riddim storici mi fanno venire la pelle d’oca. O comunque alcune cose anche dei Roll Deep, Dizzee Rascal, sempre firme londinesi. 

L’hip hop lo fai per la comunità e per nient’altro, se poi di riflesso arriva la notorietà meglio ancora.

 

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L'articolo Yodaman: io sono il grime all'italiana di Chiara Lauretani è apparso su Rockit.it il 2020-02-11 15:28:00

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