Dire che una canzone è Lo-Fi non basta per darle un'anima

Oggi tutti usano questa definizione per darsi un'aura di artigianalità e DIY, ma il genere ha una sua storia e sue regole: non può essere uno stratagemma per dare un'anima a opere che ne hanno poca

Giorno dopo giorno, una definizione sgomita per farsi spazio nelle note biografie delle nuove band e dei nuovi progetti musicali: Lo-Fi. Là dove una volta erano seminati campi di synth anni '80 e ritmi buoni per ballare a San Junipero, oggi le fattorie sono state riconvertite a bassa fedeltà. La parola composta "Lo-Fi" (Low Fidelity) sta diventando come "disagio", una roba che metti per condire l'insalata, per farla sapere di qualcosa. Se nella scena hip hop la questione ha un suo reale motivo d'interesse (prego leggere qui), in quella wannabe pop, cantautorale venata di emo, a volte sembra un pretesto per mascherare mancanza di vero talento o per fare il passo post-ironico del tipo "ma sì, ho fatto un disco ma è 'na cosetta".

La storia della musica Lo-Fi, dell'applicazione e dell'etica DIY (Do It Yourself) vive di corsi e ricorsi storici: prende piede negli sperimentali anni '70, viene demonizzata e quasi oscurata del tutto negli '80 glitterati e sintetici, torna in auge nei '90 creando dei veri e propri eroi indipendenti (Daniel Johnston su tutti) e viene rivitalizzata dai 2000 in poi, per essere spalmata su tutti i generi, anche mainstream (Ariel Pink, Animal Collective, Mac De Marco ma anche le sperimentazioni di Miley Cyrus coi Flaming Lips e le playlist downtempo di Lo-Fi hip hop). La particolarità del suono è semplice: immaginate una registrazione amatoriale tutta in rosso con voci sull'orlo della distorsione e ampli sfondati. Terribilmente affascinante. 

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Nasce da un'esigenza, quella di poter creare musica anche senza soldi o senza grosse produzioni dietro, di registrare in cameretta con microfoni e registratori di fortuna, prima a nastro e ora digitali, per poter dare forma alla propria necessità espressiva senza firmare con nessuno. Nasce dal garage rock degli anni '60, dalla voglia di suonare nonostante tutto. La bassa fedeltà è stata usata nel pop nelle bedroom tapes dai Beach Boys, nel punk e nell'hardcore come cifra stilistica, nel cantautorato di Tom Waits e nelle sperimentazioni degli Einsturzende Neubauten, nell'indie folk e indie rock americano, nell'emo, nelle basi campionate del rap, nell'elettronica e nei circuiti della rave culture.

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Grazie all'innovazione tecnologica, oggi non è infrequente registrare un disco vero a casa propria, pensate che Carrie & Lowell di Sufjan Stevens è stato registrato in parte sull'iPhone del cantautore, che il fruscio del primo album di Iron & Wine dipende dal fatto che Sam Beam registrava in casa a basso volume per non svegliare le bambine che dormivano nelle altre stanze. Di certo, in un ambiente protetto come casa propria, ogni qual volta viene un'idea in mente, la si può fissare in registrazione. Il suono lo-fi, così aspro, compresso e pieno di vita, a volte è addirittura contraffatto. Non ricordo chi fu quel fonico che mi disse che il sound di un capolavoro lo-fi come In the Aeroplane Over the Sea dei Neutral Milk Hotel in realtà era più studiato di quello di un album pop, anche quando sembra buttato lì quasi per caso. Vero o falso che sia, non ci sarebbe niente di male: in ogni genere ci sono delle asticelle da fissare per superarle e quello è un disco perfetto.

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Anche l'Italia ha ceduto al fascino della vera bassa fedeltà, basti pensare ad alcune basi di Dj Gruff dei Sangue Misto (1994), alle registrazioni zanzarose nei 45 giri dei Nabat (1981) o al manifesto Dal lofai al cisei di Bugo (2002), che in tempi non sospetti veniva definito il Beck italiano proprio per la sua attitudine sperimentale homemade. Per fare una storia delle registrazioni in bassa fedeltà dovremmo scomodare tutti i demo in cassetta o in cd-r di ogni band che sia mai formata, quelli che si riascoltano sempre con un misto di commozione e imbarazzo, ma anche le migliaia di dischi delle band che vengono dal punk, dal garage o dall'hardcore, così come dall'indie folk, quello più radicale.

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A volte, però, usare questa formula come abbellimento e decorazione, senza l'etica e l'attitudine che sono necessarie quando si tenta di sovvertire le regole, crea un senso di spaesamento ben percepibile. Oggi che è possibile anche creare un album in casa, con i software di produzione sempre più performanti, oppure andare in studio per avere il massimo della qualità in registrazione, arrangiamento e masterizzazione, riscoprire il suono homemade in bassa fedeltà serve a dare un tocco di personalità, ma quella di partenza ce la devono avere gli artisti, altrimenti nessuna operazione cosmetica lo-fi potrà farci niente.

 

 

 

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L'articolo Dire che una canzone è Lo-Fi non basta per darle un'anima di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2020-03-25 13:55:00

Tag: opinione

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