Le playlist hanno ucciso gli album?

In altre parole: perché molti artisti stanno cominciando a pubblicare dischi lunghissimi se poi nessuno li ascolta davvero?

melted cd
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12/07/2016 - 15:07 Scritto da Gabriele Naddeo

Quand’è l’ultima volta che avete ascoltato un album per intero dedicandogli una certa attenzione dalla prima all’ultima traccia del disco, senza essere interrotti da gatti spaventati da cetrioli, notifiche whatsapp, immagini su Instagram? Se non lo ricordate, non siete i soli: secondo una recente ricerca condotta da Universal sugli utenti Spotify, meno del 10% degli utenti monitorati aveva effettivamente ascoltato un disco per intero.

Considerando poi che le piattaforme di musica streaming stanno risollevando il mercato discografico, ne viene fuori un quadro molto interessante. In sostanza: nel 2016 ascoltiamo sempre più canzoni sparse tramite servizi come Spotify, Tidal e Apple Music, ora in vantaggio anche rispetto a YouTube, e sempre meno album interi. I conti, però, non tornano: perché molti artisti stanno cominciando a pubblicare dischi lunghissimi se poi nessuno li ascolta davvero?

Basta dare un’occhiata ad alcune delle ultime uscite discografiche più significative, sia italiane che internazionali, per rendersi conto che questa nuova attitudine sta gradualmente modificando la durata media dell’album così come lo conosciamo oggi. Se “Art Angel” di Grimes e “To Pimp A Butterfly” di Kendrick Lamar contano rispettivamente 14 e 16 tracce, con l’ultimo album di Drake, “Views”, si parla addirittura di 20 canzoni, solo una in più della chiacchieratissima opera di Kanye West, “The Life Of Pablo”. Anche alcuni noti artisti italiani, tra l’altro, hanno pubblicato di recente degli LP decisamente extra-large. “Pop-Hoolista” di Fedez ha 20 pezzi, “Lorenzo 2015 cc” di Jovanotti è un album doppio che comprende addirittura 30 canzoni, così come sono doppi gli ultimi album pubblicati dai Verdena e dagli Afterhours: 26 brani in totale per il gruppo bergamasco, soltanto 18 per la band milanese.

(La copertina e il retro di "Views", l'ultimo disco di Drake che conta ben 20 tracce)

Forse è un po’ prematuro parlare della nascita di un nuovo prodotto musicale ibrido, una sorta di album-playlist frutto dell’incontro tra le vecchie abitudini di ascolto e le nuove regole dettate dallo streaming. In ogni caso la diffusione di questi ‘dischi XL’ potrebbe essere spiegata in un primo momento proprio con la volontà di offrire un lavoro più variegato e perciò in grado di raggiungere un pubblico potenzialmente più ampio. In questo modo il concetto alla base dell’album diventa molto più flessibile: da circuito chiuso e blocco compatto a lista scomponibile a cui poter attingere nei modi più disparati.

D’altra parte, il crollo delle vendite delle copie fisiche suggerisce altri scenari plausibili. L’aumento nel numero delle tracce potrebbe essere anche letto come un tentativo di voler controbilanciare la perdita di valore dei cd. In questo caso l’ascoltatore è spinto ad acquistare un disco che, a parità di costo con l'album classico, conterrebbe circa il doppio delle canzoni. Un disco di 20 tracce, tra l’altro, sembra essere un’ottima trovata anche dal punto di vista della promozione sul web: ora che il mercato discografico è fortemente condizionato dalla rete, un artista che ha a cuore la vendita dei propri dischi deve far sì che non venga dimenticato dalla memoria a breve termine del suo pubblico. Il lancio di un singolo, una collaborazione inaspettata o l’uscita di un nuovo videoclip sono certamente ottime scuse per far parlare della propria musica, e grazie a una tracklist più generosa  a possibilità di rilasciare contenuti originali spalmati su un lungo periodo di tempo è certamente più alta. 

Alle teorie puramente commerciali, comunque, sarebbe il caso di aggiungerne anche una più strettamente emotiva. Nell’era dell’impalpabilità, del consumo immediato, della velocità e della dimenticanza, un album corposo dà immediatamente l’impressione (sia all’artista stesso che all’ascoltatore) di avere una stabilità diversa rispetto alla raccolta standard di 10 brani, di poggiare su basi più solide e di riuscire a catalizzare l’attenzione generale. Non si tratta, naturalmente, di un presunto valore artistico aggiuntivo, quanto più di un peso differente all’interno dell’ondata di musica immateriale quotidianamente disponibile sul web. E anche questo, è comprensibile.

 

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L'articolo Le playlist hanno ucciso gli album? di Gabriele Naddeo è apparso su Rockit.it il 2016-07-12 15:07:00

COMMENTI (2)

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  • MaxGit 8 anni fa Rispondi

    e quindi le playlist più che ucciso, avrebbero 'influenzato' il formato degli album. Interessante, chiare le possibili strategie commerciali, e anche comprensibili perché no, ma secondo me di breve respiro. Dopo che hai scartato due regali piccoli con incarto grande non freghi più nessuno LOL. A meno che ... non ci si sia oramai abituati a questo annacquamento dei contenuti e non si ricordi che ben altro è possibile.

  • alecracecar 8 anni fa Rispondi

    molto interessante, mi piacerebbe capire se questa extra produzione porta ad uscite meno frequenti oppure no