Venticinque, episodio 8: The Bloody Beetroots torna a casa

L'ottavo episodio del podcast di Rockit e LifeGate racconta la storia incredibile di un punk di Bassano diventato star internazionale. Siamo tornati con Bob Rifo allo Shindy, abbiamo ascoltato storie su McCartney e su Sanremo, gli abbiamo fatto togliere (metaforicamente) la maschera

Foto di Alessia Leporati - Elaborazione di Giulia Cortinovis
Foto di Alessia Leporati - Elaborazione di Giulia Cortinovis

“È rimasto tutto come allora, non è cambiato nulla”.

Sir Bob Cornelius Rifo si guarda in giro: non sapeva bene cosa aspettarsi, di certo non che il mondo si fosse fermato. Siamo allo Shindy, a Bassano del Grappa: storico club del vicentino, teatro di migliaia di serate live, chiuso dal 2016. Da poco è subentrata una nuova gestione, che ha iniziato i lavori di ristrutturazione. Prima di stravolgere tutto, però, ha fatto entrare Venticinque, e il protagonista del suo ottavo episodio: l’uomo, anzi la maschera, dietro a cui si nasconde The Bloody Beetroots.

“Questo è il posto dove ho imparato a suonare: ci mettevo i dischi, e ci ho ascoltato di tutto. Il proprietario era Carlo Casale dei Frigidaire Tango, la gente guidava fino a qui fondamentalmente per rovinarsi. Era tutto super hardcore. Ci stavano 800 persone, la sera scoppiava: negli anni belli c’era vomito dovunque. Questo posto è stato per anni il mio punto di riferimento e non è un caso se la data zero di The Bloody Beetroots sia stata qui”.

Era il 2006 – l’anno attorno a cui ruota questa puntata di Venticinque, il podcast prodotto per i 25 anni di Rockit assieme a LifeGate Radio, e scritto da Dario Falcini, Giacomo De Poli e Marco Rip –, Bob e Tommy Tea, allora suo socio in questa avventura, non avevano ancora nemmeno le maschere.

Lo Shindy di Bassano del Grappa in una foto d'epoca, Lele Momoli
Lo Shindy di Bassano del Grappa in una foto d'epoca, Lele Momoli

“Ma arrivano poco dopo, sempre nel 2006: era il periodo in cui i fotografi iniziavano a girare per locali e fotografare durante i live. Noi non avevamo ancora fatto l’esperienza di cosa significasse essere scattati mentre sei tutto devastato. Una volta capito, ci venne l’idea delle maschere, così mi misi a produrre dei pezzi. Solo che la cosa mi sfuggì di mano, anche perché alla gente piacevano  tantissimo. Una parte del successo di The Bloody Beetroots è dovuta anche a questo”.

Il successo di cui Bob Rifo parla è stato enorme, lo è tutt’ora. E la storia umana ed artistica che l’artista consegna al nostro podcast è una delle più incredibili, sicuramente la più internazionale, di quelle raccontate in questa stagione. “Io ho vissuto a Bassano fino a 29 anni. È solo a quell’età, momento in cui è nato The Bloody Beetroots, che ho cominciato a suonare ovunque, a girare il mondo. Da quel momento non ho più avuto una dimora fissa”.

The Bloody Beetroots, foto di Mark Kola
The Bloody Beetroots, foto di Mark Kola

Mentre si aggira per il locale, osservato i primi bozzetti di quel che diverrà, ritorna all’adolescenza. “Ero un ragazzo molto timido, per cui i miei mi mandarono a studiare musica per trovarmi un posto nella società. Solo che, invece che chitarra, mi fecero studiare musica classica, edivenni ancora più introverso. Con l’adolescenza ho scoperto il punk. Da allora avrò suonato in 25 band”.

L’ultima, prima del viaggio di TBB, è stata la Bob Rifo’s Gang, “una specie di esperimento distruttivo. Ogni volta spaccavamo in due il palco, quindi poi non ci volevano più”. Poi tutto è cambiato, come Bob racconta nell’audiodocumentario, in cui viene fuori una parte umana e del tutto inedita di lui. “Tutto partì dai blog, che ci adottarono, e ci spinsero a furia di download illegali. Era partita una wave che pareva non finire mai: su Myspace facevamo milioni di ascolti, i locali di tutto il mondo ci chiamavano. Ci trovavamo spesso negli stessi posti, dall’altra parte del pianeta: noi, Steve Aoki, Justice, Crookers. E ci piaceva tantissimo”.

Bob Rifo racconta come Warp, il suo più grande successo (seguito da Romborama e tanti altri), lo abbia proiettato “in un mondo mainstream che odiavo: io venivo dal punk, schifavo il pop. Ho tentato di distruggere il mio stesso successo, infatti feci A Christmas Vendetta, che conteneva una versione punk del pezzo: volevo anzitutto fare confusione”. 

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Torna così nel suo lungo racconto in voce al periodo in cui giravano in 8 su un furgone, guadagnando molto di meno di quello che avrebbero potuto ma divertendosi un sacco. “Vengo dalla cultura veneta del lavoro”, spiega a Venticinque. “Ho lavorato in azienda con mio padre per 7 anni e ho imparato la catena dell’industria. Per me bisogna spremere il limone finché ce n’è. Per questo sono in giro da 16 anni con questo progetto, che ho sempre cercato di evolvere”.

Ci spostiamo nel ristorante del suo amico Teo. Bob racconta la separazione dal suo socio Tommy, poi il clamoroso secondo posto a Sanremo nel 2012, in coppia con Raphael Gualazzi, che le era stato presentato da Caterina Caselli. “Avevamo un denominatore comune: l’energia”, spiega Gualazzi, intervistato da Venticinque. “La mia più acustica, la sua elettronica. Ma il mondo musicale africano e americano sono passioni comuni: alla fine è venuto fuori un crossover importante, con tanto di Tommy Lee (storico batterista Mötley Crüe, ndr) a suonare con noi durante la serata delle cover”.

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E poi Tom Morello, Steve Aoki o Perry Farrell, artisti con cui Rifo ha collaborato e di cui è diventato amico negli anni. E poi il nome più incredibile: Sir Paul McCartney. L’aneddoto che trovate nel podcast è irresistibile. “Stavo lavorando a Londra con il produttore Martin Glover, bassista di Killing Joke, che aveva un progetto side con Paul McCartney, chiamato The Fireman. Quando mi chiese chi volessi come feat. nel disco gli dissi ‘l’amico tuo potrebbe essere uno di quelli…’. Mi propose un remix di un loro brano e io, come sempre in questi casi, iniziai a distruggerlo e ricomporlo. Pochi giorni dopo ero nello studio di McCartney in un mulino a vento, in riva all’oceano, e lui mi parlava di Grappa”.

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La puntata del podcast va verso la conclusione. L’artista noto come The Bloody Beetroots, uno che ha suonato a Coachella e in altri posti unici e composto le colonne sonore dei videogame più famosi al mondo, parla ancora del suo rapporto con questa terra. Poi della sua nuova casa. “Vivo ad Atlanta, dopo anni a Los Angeles. In realtà sono in un bosco fuori dalla città, ed è il posto ideale per me. Gli Stati Uniti sono un posto che richiede molto, a volte troppo, e staccare è fondamentale per chi fa il mio mestiere. La solidità di un artista, che è l’unico modo per durare nel tempo, viene da dentro, e bisogna trovarla”.  

Con questa ottava puntata Venticinque si prende una pausa, un nuovo ciclo di otto episodi sarà annunciato a breve. In tutto saranno 25, come avrete capito. Seguite lo show per rimanere aggiornati e recuperate tutti gli episodi già usciti. 

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L'articolo Venticinque, episodio 8: The Bloody Beetroots torna a casa di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2022-06-29 09:47:00

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