Il periodo della tregua: Felpa racconta il suo nuovo album

Cosa vuol dire essere indipendenti nel 2018 in Italia, la nuova musica di protesta e molto altro nell'intervista a Felpa

Felpa
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Felpa è il progetto solista di Daniele Carretti degli Offlaga Disco Pax, che ha da poco pubblicato il terzo album "Tregua", completamente autoprodotto. È passato dalla redazione per un minilive acustico e ne abbiamo approfittato per farci raccontare del disco, ma la chiacchierata si è spinta molto oltre: in clima elettorale non potevamo non parlare di politica, musica di protesta e dei tempi che corrono. La nostra intervista.

Ogni tuo album si apre e si chiude con brani dal titolo contrapposto (“Svegliarsi” e “Dormire”, “Buio” e “Luce”, “Di giorno” e “Di notte”): come mai?
È una scelta legata soprattutto al tema del disco, nel senso che non riesco a immaginarmi un album se non come concept. Faccio fatica a fare una raccolta di pezzi scritti a caso e messi assieme dopo. Cerco sempre di chiudere all’interno del primo e dell’ultimo pezzo il contenuto dell’album stesso, in questo caso la tregua di giorno, perché essendo abbastanza insonne di notte non sono mai tranquillo. In tutti i dischi i due brani sono lo stesso pezzo, hanno lo stesso giro armonico e melodico.

Di "Paura", il tuo precedente disco, ci avevi raccontato come fosse concettualmente collegato a quello ancora prima, "Abbandono". "Tregua" è il terzo passaggio?
Sì, è arrivato un momento di tranquillità personale, che è durato pochissimo, però l’ho colto al volo; avevo necessità di mettere meno urgenza e tensione all’interno delle canzoni del disco, volevo fare una cosa più rilassata, non dico allegra perché non sono capace a scrivere le canzoni allegre (ride).

In effetti però rispetto ai precedenti album si sentono degli spiragli di luce, se vogliamo chiamarli così.
È un disco un po’ più arioso negli arrangiamenti: ho usato molti più sintetizzatori e meno chitarre perché io in primis volevo cambiare. Non dovendo rispondere a nessuna aspettativa di vendita, non ho voglia di fare sempre la stessa cosa. Ho cercato di cambiare anche gli arrangiamenti, i suoni, ho suonato diverse cose.

Infatti ho visto che nel registrare il disco hai usato veramente tanti strumenti, per tanti intendo proprio a livello di quantità, come li hai scelti?
Ho usato dei sintetizzatori di Enrico (Fontanelli, musicista degli Offlaga Disco Pax scomparso qualche anno fa, ndr) che ho preso in prestito per usarli, tenerli un po’ in movimento, ma magari adesso li passerò a sua figlia sperando che inizi a smanettarci. Ci è voluto un po’ di tempo per capire esattamente come suonare determinati sintetizzatori così da tirarci fuori certi suoni. Alcuni ricordano molto le sonorità anni '80 perché non conoscendo bene gli strumenti, appena ho trovato dei suoni convincenti li ho inseriti nel disco.

Quindi c’è stato un approccio abbastanza istintivo alle cose che avevi intorno.
Sì, come sempre del resto. A casa ho chitarra, pianoforte, tastiere e altre cose che suono sempre, e come per gli altri dischi, mi sono preso i miei tempi, anche se quando li scrivo li registro quasi sempre subito, difficilmente li tengo lì e ci lavoro molto.

Come funziona di solito la scrittura di un tuo brano?
Metto su un ritmo di batteria fisso per suonare quello che ho in mente, poi creo l’arrangiamento attorno e finisco pian pianino. Chiaramente poi riascoltando tolgo o metto degli strumenti. Negli anni mi sono fatto un mio studio a casa per poter gestire i miei tempi e non dover andare in uno studio di registrazione dove comunque devi sottostare a degli orari. Sono legato a delle tempistiche che con un band come gli Offlaga riusciva a gestire, perché facevamo le prove e arrivavamo in studio con le idee ben precise, ma da solo preferisco gestirmi la cosa in un altro modo: in primis più economico, perché essendo da solo sarebbe comunque una spesa non indifferente; e poi magari mi sveglio di notte, mi viene voglia di fare una chitarra, non devo aspettare il giorno dopo che poi magari mi passa l’idea. Mi voglio sentire libero e preferisco farlo da solo. 

Prima mi parlavi dei suoni anni '80 e ok, sono un filone molto riconoscibile nella tua musica. Ma ultimamente che cosa stai ascoltando di più?
Ultimamente ascolto un sacco il disco di Cosmo, dovrei liberarmi da questa cosa (ride). Se parliamo delle cose che ascolto sempre più volentieri o metto su del jazz o delle colonne sonore, negli ultimi anni ho comprato tantissime colonne sonore in vinile, da Carpenter a Morricone, Piero Umiliani. Ascolto spesso i dischi di Miles Davis e Coltrane. Poi non mi stanco mai degli Slowdive e dei Cocteau Twins, Pixies, Dead can dance...

Torniamo a "Tregua", abbiamo detto che in questo disco si vedono degli spiragli di luce in più rispetto ai precedenti, però sulla copertina c'è la silhouette di dei fiori neri. Di quella "Paura" ci avevi raccontato che era stata fatta da un tuo amico che fa collage, questa com'è nata?
La copertina inizialmente doveva essere diversa, ma il progetto per come ce l'avevo in mente costava troppo: avrei voluto fare un librettino simile a quei diari americani anni '60 o ai sussidiari italiani di quegli anni, visto che la mia etichetta si chiama Sussidiari mi pareva carino. Però avrei dovuto fare la rilegatura a libro, riempirlo di contenuti (e a scrivere non sono bravissimo), insomma, sarebbe diventato troppo complicato. Mi è venuta quindi l’idea di riguardarmi tutte le grafiche delle prime cose della 4AD, soprattutto per il lettering. In realtà alla fine l’ho sviluppato in maniera ancora diversa, con delle cornici. La foto è mia, scattata a Parigi al Jardin des Plantes, ma non mi ricordo quando. Mi ricordavano molto quelle di Blossfeldt, che fotografava le piante in un bianco e nero molto contrastato. La foto dei fiori è attaccata con un adesivo alla cornice, idea che ho rubato ai libri Sellerio che io leggo tantissimo.

Come lato B di uno dei singoli hai realizzato una cover di Georgieness che non è proprio il primo nome che si associa alla tua musica. Come mai hai scelto proprio un suo brano?
Durante la registrazione del disco ho ascoltato tantissimo il disco di Georgieness (assieme ad "Aurora" de i Cani, ma quella è un’altra storia). "Non ballerò" mi ha molto colpito: ha dentro due o tre frasi molto, molto belle. Giorgia per me ha un talento incredibile, una voce bellissima, dal vivo canta ancora meglio che nel disco. L’ho fatta uscire come b-side perché a me piace un sacco l'idea di riarrangiare dei brani, come avevo fatto con "Armstrong" degli Scisma o "Vera Nabokov" de I Cani. Ci tengo a questo filone di cover di gruppi italiani che mi piacciono, anche perché ho sempre fatto molta fatica ad ascoltare musica italiana.

Eppure alla domanda su cosa stai ascoltando mi hai risposto Cosmo!
Da quando ho iniziato a suonare con gli Offlaga, ho iniziato a guardare un po’ in giro. Io ed Enrico ascoltavamo soprattutto musica straniera, nei primi duemila andavamo a vedere i concerti italiani tipo Massimo Volume, Bluvertigo, Scisma. Con gli Offlaga mi sono molto aperto e avendo condiviso i palchi con molti gruppi italiani, ho iniziato a fare molta più attenzione all’italiano, anche se secondo me cantare in italiano è molto più difficile. Non che molti dei miei gruppi preferiti inglesi scrivano delle gran robe se vai a leggerti i testi (ride).

È il paradosso per cui ci troviamo spesso: idolatrare le band straniere, magari lamentandoci della musica nostrana, ma poi se vai a vedere...
Sì, è quello che volevo dire, fondamentalmente a parte i Joy Division o gli Smiths,  Morrissey che ha un modo di scrivere legato alla letteratura. Anche Robert Smith è molto bravo però ha scritto anche dei testi così così. Io da musicista faccio  molta più attenzione alle musiche, e c’è da dire che la musica mi piace molto posso anche sopportare un testo brutto in italiano, e al contrario se la musica non mi piace e il testo è bello faccio molta fatica ad ascoltarlo comunque. Cosmo ha dei testi che non sono tradizionali, d’amore o di politica o impegnate.

Fondalmentalmente parlano di quanto sia bello andare a ballare.
Esatto, è divertente perché non si prende troppo sul serio, scrive bene, che è una cosa che mi stupisce molto perché lui o Il teatro degli orrori hanno dimostrato che il genere che fai non determina assolutamente la lingua. Un mio amico sostiene che alcuni generi non si possano cantare in italiano, ma se sei bravo puoi cantare qualsiasi cosa. Per esempio i Drink to me erano molto bravi ma cantati in inglese risultavano ancora troppo derivativi.



Forse la particolarità del cantare in italiano è proprio il fatto che la personalità può emergere in maniera più incisiva.
Esatto, quando Cosmo ha fatto il primo disco in italiano nessuno faceva quella roba, anche i Fine Before you came da quando cantano in italiano sono molto più fighi, per quanto fossero bravi anche prima. Hanno dei testi bellissimi e secondo me sono molto bravi, come i Gazebo Penguins e molti altri gruppi che se cantassero in inglese si perderebbero in un confronto con l'estero. Gli stessi Be Forest che a me piacciono molto cantati in italiano sarebbero meglio? Secondo me sì. È chiaro che si precluderebbero una serie di mercati o di esperienze all’estero.

In questo momento arrivano una serie di segnali positivi, come i gruppi italiani che apriranno i concerti dei Phoenix a Parigi, Nic Cester che ha scelto una band tutta italiana. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato un editoriale in cui ci chiediamo se questo non sia il momento giusto di esportare la musica italiana cantata in italiano all'estero senza preoccuparci del limite linguistico.
Assolutamente sì, io stesso sono andato a suonare a Bruxelles e a Parigi perché c’è attenzione e secondo me è anche ora di smetterla di legarci a un linguaggio. Poi qui in Italia dei gruppi italiani che cantano in inglese si contano sulle dita di una mano quelli che stanno facendo davvero i numeri. Quelli che hanno fatto un loro percorso come i Giardini di Mirò o gli Yuppie Flu, sono rimasti in un ambiente indipendente abbastanza ristretto.



Prima hai tirato fuori un termine in particolare, musica politica. A questo proposito alcuni commentatori si sono spinti a dichiarare che la musica di protesta in Italia non esiste più. Io ritengo che la musica di protesta per definizione nasca nel momento in cui c'è qualcosa contro cui protestare, e la situazione politica in questo momento è in uno stallo per cui si potrebbe protestare contro tutti e contro nessuno. Eppure ci sono alcune manifestazioni di musica politica che forse non vengono riconosciute come tali solo perché non corrispondono al canone che abbiamo in mente di musica di protesta, cioè il cantautore con la chitarra che suona solo alle feste di sinistra o la band di musica folk. Penso per esempio al rap.
Partiamo dal presupposto che a me il rap non piace, ma riconosco che ci sono delle realtà molto importanti: uno come Ghali è molto importante, perché viene da un percorso sociale e personale molto forte e ben definito, soprattutto oggi in Italia dove c’è un'intolleranza assurda, e lui si pone davanti a questa intolleranza cercando di spiegare da dove viene. È molto interessante quello che fa ed è anche molto bravo e sono molto stupito e contento del suo successo. Poi che tutta la gente che lo ascolta colga il segnale non ci metterei la mano sul fuoco (ride), ma è un altro discorso. Secondo me Ghali si può paragonare a uno come il Guccini degli anni '70, non per affinità musicale, ma semplicemente per l’apporto sociale che può avere. In qualsiasi modo ti poni al prossimo stai facendo politica. Chiaramente denunciando o parlando di determinate cose fai una politica più attiva, ma anche l'amore per esempio può avere una componente sociale molto forte perché il rapporto con gli altri è fondamentale ed è già politica.
Quando canta, il musicista deve rendersi conto che è parte di una società in cui se dice che è bello calarsi una pasticca il sabato sera ci sarà della gente che lo ascolta, o se fa una dichiarazione su chi voterà magari due persone si andranno a informare e si chiederanno perché l'ha detto. 

Vorrei parlare con te di un'ultima cosa, visto che spesso in questa intervista abbiamo parlato di numeri, copie, successo, tutte questioni che per un musicista come te non sono una preoccupazione. Ultimamente c’è questa diatriba che sembrerebbe insormontabile, cioè: chi sono i musicisti indipendenti. Sarebbe ora di mettere un paletto, è chiaro che non possiamo più parlare di un genere musicale ma ad esempio tu per me sei un indipendente perché ti produci da solo, hai la tua etichetta, ecc, ma anche Ghali lo è perché anche lui ha la sua etichetta e non è con una major, eppure nessuno si sognerebbe di riconoscere che Ghali è a tutti gli effetti un musicista indipendente. Tu dove lo metteresti questo paletto?
Agli inizi quando andavo al MEI di Faenza c’era gente che si lamenta perché c’era Pagani con la sua etichetta o la Caselli con Sugar, che sono a tutti gli effetti etichette indipendenti, come anche Carosello. Se prendiamo le etichette hardcore americane anni '80 non se ne esce più, è un altra cosa ancora diversa. Allora vogliamo dire musica indipendente o no? secondo me adesso semplicemente negli ultimi anni c’è stata una cancellazione di un certo tipo di musica italiana perché le major non producono quasi più roba nuova se non roba sicura come i fuoriusciti dai talent o Sanremo quando c’è Sanremo; intanto le etichette davvero indipendenti sono state attente. Prendi Calcutta, io l’ho fatto suonare a Reggio tre volte nel mio locale davanti a 20 persone scarse, lo guardavo e mi chiedevo come fosse possibile che non avesse successo. Poi finalmente è stato prodotto nel modo giusto, c’è stata un’operazione di marketing sotto che è arrivata da altre cose che hanno aperto la strada come I Cani. Secondo me è la tua attitudine che ti definisce come indipendente. Quando io ed Enrico suonavamo insieme, prima di tutto pensavamo a fare cose che ci piacessero, e anche con Felpa io faccio le mie cose. Se piacciono io sono stracontento chiaramente, se non piacciono ok, me l’ascolto io. Se vendo 10 dischi o ne vendo 100 io sono comunque soddisfatto perché ho fatto una cosa in cui credo, tra l’altro in "Tregua" ci ho speso una quantità di soldi che non ritorneranno mai, ma l’ho fatto volentieri perché era una cosa che ci tenevo molto a fare. Però bisogna tenere in considerazione che una volta che immetti qualcosa sul mercato ci sono delle regole a cui devi sottostare, altrimenti ti fai la cassettina e te la ascolti in macchina da solo (ride). 

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L'articolo Il periodo della tregua: Felpa racconta il suo nuovo album di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2018-03-01 14:57:00

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