Sacrosanto come l'inviolabile: a Napoli coi Gomma

I Gomma raccontano il nuovo album "Sacrosanto", parlando del tour, di letteratura, Speranza, politica, Idles e religione.

Gomma (tutte le foto sono di Guglielmo Verrienti. Un ringraziamento particolare allo Scugnizzo Liberato)
Gomma (tutte le foto sono di Guglielmo Verrienti. Un ringraziamento particolare allo Scugnizzo Liberato)

Abbiamo incontrato i Gomma in occasione della data napoletana del tour di "Sacrosanto" allo Scugnizzo Liberato, a due anni dal nostro ultimo incontro. Girovagando fra le stanze nascoste dell’ex convento e carcere, dove avevano già presentato "Toska" nel 2017, abbiamo trovato un gruppo cresciuto e più disinvolto, animato però dallo stesso spirito degli esordi, un po’ come quello ritrovato sul loro secondo disco uscito il 25 gennaio per V4V-Records. Quello che segue è ciò che ci siamo detti parlando proprio dell'album, del tour appena iniziato, ma anche di letteratura, Speranza, politica, Idles e religione.

Ciao ragazzi, è passato un po’ dall’ultima volta che ci siamo seduti a chiacchierare. Cosa vi è successo in questi due anni?
Giovanni: Tarantelle… Ma ai Gomma o in generale?

Beh, tutt’e due.
Matteo: Penso che perlopiù sono cambiate le cose per le nostre vite. Non tanto per il modo di scrivere o per quello che facciamo, ma più per le nostre vite in generale e il nostro rapporto.
Ilaria: Sì, sono cambiate tantissime cose a livello personale come sono cambiate anche tante cose a livello di scrittura, perché dopo tot anni che suonavamo ci siamo fatti un’idea un po’ più precisa e specifica di quello che volevamo fare, un’idea anche di suono che volevamo ottenere, e quindi abbiamo iniziato a scrivere di conseguenza. Quindi se la domanda è relativa al cambiamento che abbiamo avuto come gruppo, è sicuramente il fatto che siamo cresciuti musicalmente e ci siamo fatti un’idea di quello che volevamo.

A proposito di scrittura, nel vostro primo album, "Toska", secondo me c’erano alcuni elementi che avevano attirato particolarmente l’attenzione del pubblico, cioè lo stile vocale di Ilaria, tutta la serie di riferimenti letterari e cinematografici non troppo sputtanati nei testi e qualcosa nelle sonorità che vi avevano un po’ permesso di entrare nel calderone indie. Di queste tre cose in "Sacrosanto" non c’è quasi nulla. È stata una scelta consapevole?
I: Più che consapevole. Voluta. Nel senso che, riguardo alle sonorità che ci avevano permesso di entrare nel calderone indie, in realtà secondo me non c’erano e non c’era un escamotage per riuscire a entrare in quel mondo lì. Semplicemente c’è stata un’attenzione mediatica, un modo…
G: Secondo me più una serie di coincidenze.
I: ... Anche una serie di coincidenze, però sicuramente c’è stata una serie di cose anche a livello pubblicitario/mediatico, ne sono convinta, che hanno fatto sì che le persone fraintendessero la nostra appartenenza a qualche tipo di mondo. Quindi non è che c’è stata la volontà di fare qualcosa di diverso per uscire da quel mondo, non ‘voluta’ in quel senso, è stata più una presa di coscienza del tipo "io non c’entro nulla con quella roba, mi faccio le cose a modo mio, come mi viene di farle e come ho sempre fatto".

Avreste potuto fare qualcosa di più simile a quello che un certo pubblico si aspettava?
G: Avoja, ma quante ne vuoi. Ma in realtà abbiamo scartato un sacco di pezzi che per noi erano validi, però non c’entravano con quello che noi volevamo dire. Secondo me la differenza tra questo disco e "Toska" non è neanche la produzione o il fatto di essere più maturi con la scrittura eccetera, è semplicemente che là ti venivano dette dieci cose insieme, qua te ne diciamo una, sperando di essere chiari.

Avete da poco iniziato il tour, questa è la terza data dopo Milano e Bologna. Com’è l’accoglienza del pubblico e come è cambiata rispetto ai vostri primi giri fuori porta?
I: C’è da dire che in generale suonare lontano da casa per noi è sempre stato più semplice. Tendenzialmente, ne parlavo oggi con un amico...
G: Chi è st’amico scusami? (risate, ndr)
I:  ... È più difficile suonare davanti a persone che ti conoscono, perché la bellezza di suonare, almeno per quanto riguarda me, sta proprio nel fatto che posso dire i cazzi miei senza che nessuno ne capisca nulla. Quindi suonare davanti a persone che possono collegare a fatti o persone reali quello che dico, per me è molto difficile. In particolare quando abbiamo suonato in Campania ho trovato difficoltà a considerare la reale risposta del pubblico. Mi è sempre sembrato che lontano da casa le serate fossero più calde, più naturali, perché io ho un atteggiamento diverso.
B: La data in casa è sempre più difficile, sicuramente dipende anche da noi. Almeno nel mio caso, questa cosa qua è un po’ un pretesto per viaggiare, incontrare gente nuova, quindi stare qua è altrettanto bello, ma è una sensazione diversa, manca un attimo quella roba di stare lontano mille chilometri da casa.
M: Che poi è uno dei motivi per cui lo facciamo.
I: Per rispondere alla domanda originaria, le prime due date sono state bellissime, le persone erano mega prese bene e sono stati due momenti molto umani e collettivi, che poi per me è la cosa più importante durante i concerti.

Tornando al disco, sacrosanto è una parola forte, che quando la dici ti riempie la bocca. Da dove viene questo titolo così lapidario?
G: Lo abbiamo deciso in macchina.
I: Sì, eravamo in macchina. Perché in realtà le proposte erano varie, però nessuna riusciva a convincere tutti.
G: Erano tutte sullo stesso concetto.
I: Alcune erano troppo pretenziose, magari per noi no ma potevano sembrarlo, altre erano un po’ troppo inflazionate, quindi quando è uscita questa e ha convinto tutti abbiamo detto subito "ok, si chiama Sacrosanto".
G: Il senso era attribuire importanza al percorso che abbiamo fatto, più quello fuori dal tour che nel tour. Non è nel senso stretto, cattolico, in cui spesso si usa, è più gergale. Tipo, "abbiamo finito sto sacrosanto disco".
I: Per me è una similitudine dell’inviolabile, dare importanza alla crescita che un musicista e una persona fa, è un valore inviolabile, sacro.

Però, al di là del significato diciamo autobiografico, nell’album c’è comunque una presenza spirituale che aleggia, dalla copertina e dal titolo fino a "Fantasmi", passando ovviamente per "Santa Messa". Che rapporto avete con la religione?
I: Guarda, io con la religione ho avuto un rapporto di totale ignoranza, chiamiamola così, per tanto tempo. Nel senso che mio padre, a modo suo, è sempre stata una persona religiosa. Non cattolico praticante, come molte delle persone qui al Sud, ma ha sempre cercato di inculcarmi determinati valori a parole sue, che io non riuscivo a capire proprio per questa mia ignoranza, perché collegavo la religione alla Chiesa Cattolica. Per me la religione equivaleva ad andare a messa la domenica, fare la comunione e la cresima. Chiaramente crescendo ho rivalutato l’idea della religione che avevo, anche per varie considerazioni che ho fatto fra me e me a anche con loro. Parlare e confrontarsi con persone che possono pensarla come te è sempre un modo per crescere, quindi scoprire che un dubbio o una perplessità c’è anche da parte degli altri, significa anche andare a cercare e studiare quell’argomento. Per me è stato proprio questo, una ricerca che poi è sfociata nel dirmi "io sono religiosa, a tutti gli effetti". Come lo siamo tutti, perché abbiamo un senso critico e un senso etico, innato, sappiamo cosa è giusto e cosa sbagliato, cosa ci reca del bene e cosa ci reca del male. Per me è questo la religione.
G: Per quanto riguarda me, non ho ancora maturato una coscienza religiosa. Diciamo che nella mia famiglia la religione non è mai stata imposta, è sempre stata data per scontato. Però al liceo mi ricordo che avevo un professore di storia e filosofia che era cattolico e che ci faceva vivere anche nell’ambiente scolastico l’imposizione religiosa, quella proprio ferrea, vecchio stile. Quindi un po’ la riluttanza è venuta da là, poi dopo, per tutta una serie di cose uno ci va spesso a pensare. Mi sono detto che forse, pur non avendo una coscienza religiosa, penso molto più spesso a Dio di un cattolico che lo dà per scontato. Quindi magari in certi momenti mi sento più in connessione con Dio di un cattolico, che ce l’ha là perché ha la fiducia, perché poi la fede è un atto di fiducia, nell’avere quei dogmi, quelle scritture. Io sto cercando di capire, però può essere che arrivo a morire senza scoprirlo, cioè, sicuro non lo scoprirò.

Rimanendo sul tema spiritualità, c’è questa cosa molto bella nella presentazione del disco: "una riflessione spirituale su quello che abbiamo fatto per noi e per gli altri"Sulla linea “noi e gli altri”, ma soprattutto “noi”, c’è "Come va, Paolo?", un pezzo che avete dedicato al vostro batterista e che secondo me è uno dei momenti migliori dell’album, già tormentone, se non sbaglio scritto da Giovanni. Visto che Paolo adesso non c’è, potete parlarmene liberamente.
G: Sì, l’ho scritto io. Diciamo che Paolo sta vivendo un momento un po’ brutto, in generale nella vita. Quando hai un rapporto molto confidenziale con i tuoi amici molte cose le dai per scontato, noi vivendo assieme, da quasi due anni diamo certe cose per scontato, anche nei momenti no. Però mi sono reso conto che gli dovevo dire delle cose, ed è uscita una cosa che non è una lettera, ma dei pensieri che avevo fatto pensando a lui. La cosa di cui mi sono stupito è che anche se il pezzo l’ho scritto per lui, mi sono ritrovato a capire delle cose di me stesso. Che è in parte il senso del perché hai un rapporto con le persone e ti stai a sentire anche i cazzi loro, perché attraverso questa cosa può arricchirti. E quindi "Come va, Paolo?" era nata come un gesto carino che però mi sono ritrovato utile anche per me.

Poi c’è "Tamburo", un pezzo di cui magari non è facile parlare ogni volta perché racconta di una ragazza che qualche anno fa ha deciso di andarsene, ma che forse proprio per questo è importante ricordare.
G: Adesso già c’ho fatto più l’abitudine, ma all’inizio ero partito che di questa cosa non ne volevo parlare proprio. Semplicemente, io ho vissuto quella cosa, mi sono sentito colpevole,  pur non essendo la persona più vicina a Maria Paola. Poi mi sono reso conto nel corso degli anni che alla fine io non c’entravo, però visto che la storia che è successa non era la prima volta che rischiava di succedere, aver perso l’occasione di prenderla in tempo ha fatto sì che colpevoli ci siamo diventati tutti. Siccome non sono mai riuscito a parlare di questa cosa, adesso sono passati sei anni, quando ho cominciato a scrivere la prima cosa di cui mi veniva in mente di scrivere era questa. Però abbandonavo sempre tutto, la scrivevo ma mi sembrava di mancare di rispetto, essere troppo descrittivo, di starmi rapportando con qualcosa di più grande di me. Alla fine è uscita e basta, l’ho detto agli altri esattamente come lo sto raccontando a te ed era l’unico modo per darmi un senso del perché è successa questa cosa, nella mia vita anche, e cercare di trasformarla in qualcosa di positivo per tutte quelle persone che ci stanno ancora a combattere. Perché la cosa che dispiace di più è quando c’è una persona che sta soffrendo ma non te lo dimostra, c’ha sempre quel sorriso sulla faccia e tu sottovaluti questa cosa, è una roba che non si deve fare mai anche se uno ti sembra positivo o tranquillo, non devi sottovalutare il fatto che stia soffrendo.

Ci volete parlare della lavorazione del video?
G: Forse è l’unico video, anche "Fantasmi" ma questo di più, su cui ho posto dei vincoli precisi. Doveva essere fatto in quel campo da rugby perché quello era il suo, doveva essere fatto con la divisa della squadra che era la sua e doveva essere fatto in un certo modo. La cosa più difficile è stata decidere il finale, il senso di tutto questo è che io spero che alla fine Maria Paola abbia trovato pace in quello che ha fatto, pure se era meglio di no… Però spero che adesso sia in pace.

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Stacchiamo un po’ e parliamo del mondo fuori. Mi ricordo che quando avete iniziato a fare interviste, un paio d’anni fa, c’era sempre la domanda sulla trap e la Dark Polo Gang, che erano un po’ le novità del momento. Adesso vi stanno facendo le domande su Speranza?
I: Sì.

E mi sa che ve la faccio pure io. Che ne pensate?
I: Che è il mio Dio.
G: È il migliore, una bomba (entusiasmo concitato da parte di tutti, ndr)

Che non è esattamente la risposta che davate sulla DPG.
I: Già. Sono felice per un motivo soltanto, perché tendenzialmente nessuno è mai riuscito a descrivere meglio di lui la realtà provinciale, che poi è la provincia in cui noi viviamo. Per me il modo in cui lo fa, la crudezza, è tutto perfetto. Per me se senti Speranza senti Caserta, la voce di Caserta, che è quella.
M: Infatti è da qui che ho iniziato, bene o male, a rivalutare un poco l’appartenenza a quel posto. Proprio da quando sono usciti i suoi pezzi ho pensato molto più fortemente al posto da cui vengo, perché ha raccontato così bene questa cosa.
G: Ci ha fatto sentire più di Caserta lui che altri 2000 gruppi.
M: Esattamente, ho sentito Caserta a 22 anni, dopo che ci vivo da quando ne avevo 0. L’ho sentita molto forte con le sue canzoni, ho pensato "Uà, Caserta… Alla fine, sì, va bene così".
G: Forse l’unico che secondo me può arrivare ad andare su quella direzione là, ma parlo a titolo personale perché non so se gli altri la pensano così, è Massimo Pericolo, che mi piace molto. Secondo me lui ha esattamente la stessa funzione, lo stesso valore di Speranza, per quell’altro contesto. Lascia stare che ci sta sempre il discorso dei soldi, le puttane eccetera eccetera, però ci scorgo il fatto che lui ha vissuto davvero certe cose e sogna certe cose. Infatti la parte più emozionante del pezzo che è uscito recentemente, "Sette miliardi" è il finale, quando lui dice "voglio una vita decente". Dice "voglio sette miliardi, voglio le puttane, voglio questo voglio quello" e alla fine c’è la sua faccia, senza tatuaggi, senza piercing, da “bravo ragazzo” che dice soltanto quella frase, un impatto assurdo.

Sì, forse ci dice molto della mentalità che spesso c’è dietro questo tipo di testi.
G: Se ci fai caso analizzando la storia della musica fino ad ora, è la stessa cosa che è successa con l’hip hop, il blues e il jazz, quando iniziavi a vedere i jazzman in giacca e cravatta per far vedere che erano arrivati, o che andavano in giro con le macchine di lusso, è tutto un modo per rivendicare il fatto che tu ci sei riuscito, sei riuscito a cambiare la tua vita anche per dare un messaggio.

L’ostentazione ha fatto parte di molte sottoculture musicali, poi è stato un po’ forse l’immaginario indie o underground a cercare di superarla.
G: Ma perché c’è stato il passaggio diciamo “radical”, che tu hai i soldi ma non lo devi far vedere, insomma col cantautorato di sinistra eccetera.

A proposito di indie, in particolare italiano, diciamo che la celebrazione dei Gomma e di "Toska" come novità è stata un po’ una delle ultime fiammate di un immaginario, quello indie, che poi ha iniziato a retrocedere rispetto a quello urban e anche quello itpop. In questo panorama musicale diviso più o meno fra urban/trap e itpop, un disco come "Sacrosanto" che tipo di pubblico pensate possa intercettare, ammesso che la cosa vi interessi?
G: Mi credi, veramente non me ne frega.
I: Non so rispondere semplicemente perché non ho un interesse in questa cosa. A me fa piacere se persone che ascoltano tutt’altro genere riescono ad apprezzare quello che faccio, ma fondamentalmente non me ne frega tanto da poterti dire “mi sento di appartenere a questo o quello”, mi sento di appartenere ai palchi e basta, qualsiasi siano, e non mi interessa chi ci sta davanti a me, se gli piace quello che faccio.
G: Poi è anche inutile, perché scendi dal palco, ti fai quattro chiacchiere, chiedi "che ascolti?" e uno ti risponde Minutemen, l’altro Gazzelle, quindi non lo cerco proprio più il discorso.

Diciamo che di per sé forse l’argomento non è interessante, però se l’ho messo in mezzo è perché comunque, per il tipo di musica che state facendo, voi ricevete un attenzione diversa rispetto a tanti altri.
I: Abbiamo permesso a delle persone che realmente non avevano alcuna concezione di quello che facevamo e del mondo a cui appartenevamo di apprezzare qualcosa che non faceva parte del loro patrimonio di ascolto. Che è una cosa positiva, chiaramente per noi all’inizio è stata un po’ negativa perché le persone che venivano ai nostri concerti si aspettavano un qualcosa che noi non gli davamo, non facevamo le cose che loro si aspettavano. Però è stato anche un modo per loro di avvicinarsi alla musica che facevamo, un trampolino di lancio. Moltissime persone, quando facevamo la cover dei Fugazi, ci scrivevano per dirci “non li conoscevo, fichissimi, ora sento tutti i giorni i Fugazi”. Noi non c’entriamo nulla con i Fugazi, abbiamo semplicemente fatto una cover perché sono un gruppo che ci ha cresciuto

Guardando fuori dall’Italia, ormai si parla da tempo di fine della supremazia del rock e il 2018 ha confermato questa tendenza, però allo stesso tempo quest’anno ci ha riservato alcune sorprese piacevoli proprio in ambito punk e post punk, penso a gruppi come gli Shame, Protomartyr, Idles, che per certi versi si avvicinano un po’ a quello che fate. A me in particolare il vostro album, nelle intenzioni, ha ricordato un po’ l’ultimo degli Idles. Che ne pensate? E innanzitutto, vi piace?
G: A me è piaciuto più il primo, musicalmente, perché è più aggressivo, mi piacevano di più i suoni. Ma Talbot nel secondo ha trovato un modo di esprimersi che vale tutto. Quindi anche se musicalmente non ci stanno questi gran pezzi, a parte "Colossus" e qualche altra eccezione, il fatto che lui abbia trovato il modo di parlare di quello di cui bisogna parlare, in modo attuale, in un modo originale anche se fanno una roba vecchia di decenni, è vincente.
M: Infatti la cosa molto forte del disco nuovo, al di là dei suoni, è proprio il messaggio politico che danno, che è proprio il modo che ti fa pensare “cazzo, vorrei dire questa cosa, vorrei farlo in questo modo”.
G: Loro sicuramente vedono anche la politica economica, amministrativa, la Brexit eccetera, noi forse stiamo più sulla politica in senso sociale, diciamo. Però l’intenzione forse cerca di essere un po’ la stessa.

Secondo me la cosa che vi accomuna un po’ è questa visione politica che punta più sull’attenzione con il rapporto con se stessi e con gli altri che sul parlare esplicitamente di qualche tema strettamente politico in senso classico.
G: Alla fine è questa la politica. Penso che la politica andrebbe normalizzata. Come nel dibattito musicale, a nessuno interessa parlare delle musica in termini di seste bemolli, terze maggiori, intervalli, anche se sono cose importanti generalmente ci interessa parlare della musica in termini umani e così con la politica. Lascia stare che questo discorso alla lunga può diventare populista, ma io non è che faccio il politico, faccio il musicista, quindi è chiaro che non posso parlare di politica nei modi in cui si dovrebbe parlare di politica in senso stretto, di riforme costituzionali, strutturali eccetera. Lo devo fare in un modo in cui le persone possano rivedersi e possano emozionarcisi. Per fare un esempio con un altro gruppo che mi piace tantissimo e di cui so tutto a memoria, Il Teatro degli Orrori, loro hanno sempre parlato di politica, dalla mattina alla sera. Ma gli album più, diciamo, “poetici”, i primi due, sono quelli che mi sono rimasti di più rispetto all’ultimo, "Il Teatro degli Orrori" concept sull’immigrazione, la politica, che però forse non è arrivato quanto doveva arrivare. Ma pure se pensi alla musica pop, ti ricordi di più "Fatti mandare dalla mamma" o "Cara Italia"? Di Bennato, i pezzi poetici o quelli politici? Alla fine col fatto che tu descrivi una situazione che tutti quanti conoscono e di cui ne hanno le palle piene, non stai aggiungendo niente e stai facendo il telegiornale. Quindi o ci metti uno spunto per delle domande su cui uno dovrebbe cercare di riflettere, oppure è inutile.

Però invece c’è almeno un pezzo di "Sacrosanto" dove mi sembra di aver visto un riferimento più esplicito alla società contemporanea, o almeno a un pezzo di questa e a certe sue derive.
G: Tu ci hai visto quella cosa là?

Direi di sì, però volevo chiederlo a voi, partendo da: chi sono i balordi?
I: "Balordi" parla di quando ti rendi veramente conto della nostra natura. Ero in metro a Roma, sembravano tutti mega felici, chi doveva andare a vedere il Colosseo, chi doveva andare a fare altro, innamorati, persone che si tenevano per mano, amici. Poi c’è stato un blackout, e durante il blackout hanno iniziato a svalvolare, tutti impazziti: gente che litigava, improvvisamente gli innamorati si erano lasciati la mano e iniziavano a litigare, persone che iniziavano a parlare di lavoro, “mi devono ancora dare lo stipendio, devo ancora andare a fare questo servizio”. Un cambiamento così radicale, dovuto a un evento esterno che aveva condizionato l’umore di tutti quanti, che ci sono rimasta. È stato un attimo, da che erano tutti felici, facce allegre, è mancata la luce e si sentiva un mormorare, un lamentarsi, litigare. Per me è stato allucinante il cambiamento repentino di umore. Quindi ho scritto questa cosa pensando al fatto che abbiamo bisogno di pochissimo per dimostrarci quello che siamo veramente, ossia animali.
G: Questa è la storia, poi dal canto mio sono contento di aver messo in un pezzo “abbiamo sbarrato le porte/per sentirci più sicuri”. Una cosa palese, però implicitamente, perché ancora non era successo tutto; considera che l’album ha un annetto e questo è uno dei primi pezzi che abbiamo scritto, risale a gennaio dell’anno scorso quando la situazione politica italiana non era ancora degenerata del tutto.
I: A me fa piacere che ci abbiano fatto notare questa cosa e io lì per lì non avevo ancora pensato che ci potesse essere un collegamento, perché per me aveva un senso totalmente diverso. E invece c’è un riferimento quasi palese alla situazione politica italiana attuale, che è ridicola/vergognosa.
M: Per fortuna le elezioni ci sono state ad album già finito, quindi niente problemi (ridono, ndr).
G: Fermo restando che comunque i balordi siamo noi perché è sempre colpa nostra, anche se pensiamo ai guai fatti dalla sinistra.

Ho letto che vorreste fare dei Gomma un progetto multimediale, l’ho trovata una cosa interessante. Riuscite a svolgere un po’ il tema?
G: Mi sono detto questa cosa, che la musica è molto bella, tutto fico, la sappiamo fare e facciamola. Però mi secca il fatto di dover ridurre il mio modo di esprimermi a una forma di espressione. Suonare è comunque la cosa che mi piace di più, però visto che quando abbiamo scritto "Toska" c’erano un sacco di riferimenti culturali, letterari, e qualche influenza Ilaria l’ha avuta anche qui con Cortazar, e visto che lei fa anche fumetti, illustrazioni, fa delle cose di cui ancora non si sa bene…
I: Le farò, le farò.
G: …mi piacerebbe che Gomma diventasse un canale, un recipiente in cui sono messe tutte le cose che facciamo, nel modo migliore in cui possiamo esprimerci.
I: Per esempio, se domani a Giovanni gira di scrivere un libro, lo pubblica a nome Gomma.
G: Non è manco un’idea di marketing o mercatista, eh. Comunque a me il pubblico piace, se devo fare le canzoni mie in cameretta non me ne frega un cazzo e infatti la chitarra a casa da solo non la suono più. Suonare è una cosa che serve quando devi dire una cosa a qualcuno, è infatti questa è la differenza fra i testi suoi (di Ilaria, ndr), e i miei, che hanno sempre un tu o un vuoi, perché sto sempre parlando a qualcuno quando scrivo un pezzo. Quindi nel momento in cui riesco a fare tutto con la musica bene, ma pensando a lei, che magari ci sono delle cose che riesce a dire con i fumetti e non in musica e viceversa, mi sono chiesto: "perché non completare tutto quanto facendo sì che chi ti ascolta possa avere una visione complessiva di come la pensi sulle cose?". Questo è un po’ il discorso, per ora è tutto in fieri ma l’idea è questa qua.

Molto interessante. Conoscete i Wu Ming, che fanno più o meno una cosa simile?
I: Certo. Li ho conosciuti con il romanzo "Q", bellissimo.
G: Sì. L’intuizione più grande che hanno avuto è quella di portare avanti il discorso che faceva Godard col Gruppo Dziga Vertov, cioè spersonalizzare l’autore, rendere tutto anonimo, ma non perché si doveva creare un’aura di mistero, vedi alla voce Liberato. Semplicemente perché l’autore non serve a un cazzo, non è nessuno. Tipo stasera suoniamo, ma le canzoni ormai sono più del pubblico che nostre.
I: Io per esempio come lettrice o ascoltatrice tendo molto a farmi influenzare dal personaggio che scrive, suona, eccetera. Tipo ho un odio profondo per Alessandro Baricco, però effettivamente chissà, se leggessi un libro di Baricco senza sapere che è suo potrebbe piacermi? E li ho letti tutti i suoi libri, eh.
G: Tipo immagina di leggere un libro di Brecht con la copertina di Fabio Volo, automaticamente ti pare una puttanata. 

 

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L'articolo Sacrosanto come l'inviolabile: a Napoli coi Gomma di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2019-03-01 11:30:00

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