Luca Carboni - Da Bologna ad Alexander Platz (pagina 2)

Alessandro Raina intervista Luca Carboni: si parla del nuovo disco "Pop Up", di Milano, del calcio, della poesia, della pay tv e molto altro ancora

Luca Carboni
Luca Carboni

Luca Carboni è stato protagonista di un grande ritorno nel 2015: il suo "Pop Up" ha avuto un'ottima ricezione sia tra il pubblico che tra la critica, ed è riuscito a rinnovare il suo suono pur mantenendo la sua storica identità. Questo è stato possibile anche grazie al coinvolgimento di alcune "nuove leve" di autori che a Rockit conosciamo bene, come Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti e Alessandro Raina, che ha firmato la sua "Bologna è una regola".
È proprio a Raina che abbiamo chiesto di fare quattro chiacchiere con Luca Carboni, per parlare dell'ultimo disco ma anche di tutto quello che c'è attorno: Milano, il calcio, la poesia, la pay tv e molto altro ancora.

Altro disco fondamentale. È veramente incredibile come gli U2 siamo stati 'sul pezzo', e spesso anche un bel po' avanti, rispetto allo spirito dei tempi. Ed è difficilissimo provare a sintetizzare una generazione con parole e musica, con la velocità a cui succedono le cose nel terzo millennio. Una sera parlai con un fonico irlandese e mi spiegava che per quanto gli U2 fossero odiati da molta gente anche in patria era difficile non riconoscere come riuscissero sempre a inchiodarti nel momento in cui, nonostante li avessi dati mille volte per finiti, stavano di nuovo parlando la tua vita, di qualcosa che avevi percepito anche tu. A volte con le parole, spesso anche solo con un sound.
È così, tutto cambia a una velocità difficile da interiorizzare. A Berlino ci sono tornato quando tutto si stava già trasformando. Mi ha raggiunto anche Lorenzo, abbiamo anche una foto insieme davanti al muro. Ed è anche vero che a volte il suono ha la stessa forza descrittiva delle parole. Per la mia generazione che è passata anche attraverso il "Progressive” il vero testo di "Impressioni di Settembre" era la frase di Moog, più che le frasi di Mogol. Questo è un bel gioco di parole!

Quando scrivo una canzone che non canterò io la cosa più difficile per me è immaginare a chi far dire certe cose senza che il mio editore e gli autori con cui collaboro mi accusino di essere troppo ermetico, troppo intellettuale, troppo poco concreto. Eppure ho sempre pensato che il testo di una canzone, nel suo essere lirica, abbia molto più in comune con la poesia che con qualcosa di immediatamente e universalmente comprensibile dalla prima parola all'ultima.
Sono d'accordo! Infatti personalmente penso che sia più facile scrivere per un altro autore o cantautore piuttosto che per un interprete di cui non conosci fino in fondo la dimensione poetica, la sua intenzione, la potenzialità, il possibile cambiamento.

Ma quindi come si abbinano i meandri dell'anima tormentata di un autore e... la chiarezza?
Cavolo mi fai venire in mente le "Lezioni americane" di Italo Calvino su come scrivere nel nuovo millennio con sei parole chiave: "leggerezza", "rapidità", "esattezza", "visibilità", "molteplicità" e "coerenza", ognuna legata ad un valore letterario fondamentale da portare nel futuro. Interessante. Chiaro che gli editori e discografici lavorano su modelli esistenti che hanno funzionato. Hanno inevitabilmente sempre il riferimento del passato. Di qualcosa 'di successo' che però è già... successo! Solo gli autori, gli artisti hanno gli strumenti per lavorare a qualcosa di nuovo, cercare, sperimentare, osare. Secondo me questo abbinamento esiste in potenza, non in assoluto. Non c'è una formula. Va trovata di canzone in canzone.

Perfetto. Anche perché diversamente bisogna supporre che noi ascoltatori di musica pop si sia tutte persone culturalmente povere e con poca profondità interiore, il che sarebbe disarmante. Il senso de "Il nostro caro angelo" lo trovo io, è un viaggio che pretendo di fare io, non deve essere un autore o un discografico a decidere con che mezzo lo voglio fare, se a piedi, o in prima classe su un volo Emirates. Nessuno può obbligarmi a non essere visionario o pretendere che un testo non mi debba creare sconcerto...
Credo che oggi sia ancora più difficile fare l’autore. Perché escludendo, come dicevi tu, chi scrive e porta avanti un suo linguaggio, il pop italiano purtroppo non sembra essersi evoluto più di tanto dagli anni '90 per quanto riguarda il mondo dei testi. Probabilmente ci sono ragioni diverse, non ultima il fatto che la maggior parte di cantanti che esce dai talent, se non sono cantautori, spesso non ha maturato una direzione, una personalità, la capacità di scegliere ed appropriarsi di una canzone e quindi discografici e produttori ai primi album si trovano a cercare le strade più ovvie e sicure senza osare più di tanto. Scrivere per un interprete è un po' portare avanti un discorso, un mondo che in realtà non ha prodotto lui ma altri autori. C'è sempre il rischio di finire per concentrarsi più sul compromesso, che sull'opera. Non è assolutamente un mestiere facile. Sono convinto sia più facile scrivere canzoni autonome, ispirate, per se stessi e poi eventualmente trovare chi la può e la vuole interpretare. Chi è in grado di farla sua. Ma oggi non funziona così. Non conosco nemmeno bene la dinamica con gli editori.

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Beato te! (Si ride) Attualmente ho la sensazione che sia sempre più difficile far passare un certo immaginario quando ci si aspetta che tu debba scrivere una hit. Scrivere pensando a te è stato, senza falsa modestia, quasi facile perché escludeva qualsiasi freno inibitorio, bypassava le raccomandazioni sulla chiarezza, e potevo mettere al centro la vita usando qualsiasi prospettiva. Sapevo che non avresti avuto problemi a sostenerlo.
In questo aiuta molto il rapporto fra autore e interprete...

Che purtroppo, per mille motivi, oggi non è sempre facile da creare, ma che secondo me aprirebbe molte prospettive di crescita reciproca. Ma gli artisti spesso sono molto protetti e difficili da conoscere in prima persona. Ed è per questo che sempre più canzoni suonano 'generiche', intercambiabili. Perché non sono scritte per una voce, per un'anima, ma per un mercato. Ne faccio parte anch'io, ed è chiaro che un autore deve saper scrivere belle canzoni, 'a prescindere', ma non è un caso se, almeno per me, le canzoni che ho scritto avendo ben chiaro il destinatario sono venute meglio.
Ma certo. In passato mi ha sempre affascinato l'idea della coppia di autori/artisti che lavora e cresce insieme come sono stati Mogol e Battisti o Elton John e Bernie Taupin... ma anche Pooh e Valerio Negrini o Tozzi/Bigazzi negli anni '70 che potenzialmente diventano "uno"... Weareone! Con gli Stadio era quasi come se fossi parte della band. Gaetano Curreri, Fabio Liberatori e Ricky Portera mi davano dei demo di brani solo musicali, con una melodia in finto inglese oppure solo suonata, ed io scrivevo i testi. Spesso stavo anche in studio con loro, e "aggiustavamo il tiro" ai canti definitivi. Certo, non era come scrivere per me, su una mia musica, perché cercavo comunque di mettermi nei loro panni, nella loro storia, non era facile ma non era nemmeno un mondo così lontano. Negli anni '80 tutti erano alla ricerca di nuove strade, nuovi linguaggi, c’era voglia di fare esperimenti, di sorprendere… e poi l’editore era Lucio Dalla!

Io cantavo in una band e sto diventando autore, tu sei partito al contrario. Tutti vogliamo sempre stare sul palco, pochi nascono autori. Molti autori, non a caso, sono cantanti che non hanno avuto il successo sperato ma magari hanno una grande musicalità, sanno scrivere e cantano pure bene i provini che mandano agli interpreti!
Il mio sogno era di essere autore e musicista nella mia band Teobaldi Rock poi, purtroppo, per varie ragioni la band si sciolse e mi trovai a scrivere i testi per gli Stadio, avevo 19 anni, mi sembrava comunque tanto! Però era un meccanismo diverso dallo scrivere per cantanti diversi cercando di fare la hit. Il mondo degli autori è un mondo sconosciuto al pubblico, nessuno sa veramente come funziona, cosa succede, cosa c’è dietro ai brani che, tra l’altro, possono determinare il successo di un interprete piuttosto che di un altro.

Ho lavorato a un talent e fra tutte le critiche possibili - le condivido quasi tutte - ho sempre trovato molto ingenuo screditare il fatto stesso che qualcuno individui il tuo talento e lavori su di te, in modo anche molto programmato e quasi scientifico. Tutta la storia della musica pop, dai Beatles ai Take That, ma anche del rock'n'roll e del soul è fatta di scouting. Di grandissimi (e spietati) talent scout, provini, selezioni e di forti ingerenze di concetti come il marketing o l'opportunità, solo che non c'erano la tv e il televoto a mostrarcelo, inducendoci a credere che il successo, nella musica del passato, nascesse solo dalla magia del talento e dalla purezza degli scantinati o dei club
Pensa che le case discografiche nei primi anni '80 quando individuavano qualche nuovo artista interessante, prima di fare firmare il contratto, lo facevano esibire su "basi" in piccoli spettacoli showcase, con i dipendenti come pubblico, filmandoli e verificandoli dal vivo per poi decidere chi scegliere. È successo anche a me! Esattamente come X-Factor! Solo che portavi la tua opera e non una cover.

Cavolo bisognerebbe assolutamente recuperare dei filmati. Sono sicuro che sarebbero meravigliosi, li immagino come una cosa molto naif, ma ci farebbero anche riflettere...
Quando ho cominciato le case discografiche stipendiavano talent scout. Mi ricordo uffici con montagne e montagne impressionanti di "cassette"alla RCA, dipendenti che facevano esclusivamente il lavoro di ascoltarle e segnalare le cose interessanti. Non solo, ma c'erano anche i talent scout che giravano nei locali per sentire le band ed i cantautori dal vivo. Un po' come gli osservatori nel calcio che vanno a scovare i ragazzini di talento nelle squadrette di provincia. Poi negli anni '80 è venuta fuori anche la nuova figura del produttore che proponeva artisti suoi in cui credeva e con i quali sapeva di poter lavorare.

Fra l'altro non è nemmeno così vero che chi si candida a un talent non abbia fatto la gavetta o non sappia scrivere, penso alla recente polemica fra TheVoice e Appino. Quest'anno X-Factor l'ha addirittura vinto un ragazzo (Giosada) che ha suonato per anni in giro per il mondo con band hardcore ma ha un'anima pop rock che sarebbe stato un peccato non proporre alla gente. È un ragazzo solare, intelligente, perfetto per la tv ma con una sua storia che viene prima della tv. Alla fine mettere i propri pezzi su YouTube è farne un contenuto visivo, non sei in tv ma sei su internet, dove spesso posti anche video della tua sala prove, dei backstage, ma solo quelli che vuoi la gente veda, che è un po' l'equivalente del 'daytime' dei talent. E se penso che per un interprete la gavetta spesso si riduce a cover band, matrimoni e piano bar non riesco a criticare chi preferisce fare gavetta per tre mesi a X-Factor con insegnanti di altissimo livello. Poi, è ovvio, il mercato italiano ha mille problemi e da quelli non scappi, i talent devono migliorare moltissimo a livello di contenuti ma restano un prodotto televisivo. È la discografia a dover fare un uso interessante di chi li vince, no?
I limiti dei talent televisivi sono i soliti: che molto spesso valorizzano più nuovi cantanti dotati vocalmente, quindi interpreti piuttosto che cantautori o band, a volte più interessanti a livello creativo. Inoltre la massiccia esposizione televisiva toglie anche un po' di mistero e di fascino ai giovani personaggi costretti a piacere subito senza poter sviluppare una maturazione più lenta e graduale...non pubblica.

Sono d'accordo, ma temo che finché l'aspetto dell'intrattenimento prevarrà su quello musicale è difficile. Finché fai cantare pezzi tagliati a un minuto per risparmiare tempo per le gag di Maionchi la sensazione che la musica sia un accessorio resta forte. Ma i talent mi pare restino in primis 'eventi', occasioni per schierarsi su Twitter in un mondo condizionato dai social in cui ormai l'80% dei tuoi vicini di casa sente il dovere di rendere pubbliche le foto delle vacanze ma non ti invita quasi mai a casa per parlarti dei posti che ha visitato. Detto ciò il tuo X-Factor chi l'ha scoperto?
Io per primo ho avuto un talent scout di eccezione: Lucio Dalla! Lucio è stato addirittura colui che mi ha convinto che potevo cantare le cose che scrivevo, registrando di nascosto la mia voce negli studi Fonoprint di Bologna mentre canticchiavo una canzone degli Stadio. Prima ancora mi aveva scoperto come autore di testi.

(Luca Carboni e Lucio Dalla)

E parlando dei tuoi testi in un certo senso hai mostrato, magari senza cercarlo, quanto un linguaggio cantautorale, impegnato, diciamo 'da Premio Tenco', abbia delle controindicazioni immani, ossia possa suonare datato e innocuo un minuto dopo la fine della stagione dei De André, dei De Gregori. Per l'intelligencjia italiana chi come Dalla comincia da 'E non andar più via' e finisce con 'Attenti al lupo' si compromette, eppure io credo che uno dei grandi limiti comunicativi di tanti cantautori indie che non hanno 'sfondato' (e mi ci metto anch'io) sia stato innanzitutto il linguaggio, che è quasi sempre manierista, derivativo, così perfettamente citazionista da risultare innocuo nel 2015. E credo sia emblematico che molti dei progetti indie che vanno per la maggiore al momento, penso a I Cani, ai Thegiornalisti, a Calcutta, si basino su una scrittura sicuramente sincera ma che secondo me di indie non ha nulla, a differenza della loro immagine. Anzi è una scrittura palesemente mainstream 'retrò' ma vestita da indie. Non sono così convinto che i fan under 40 di questi gruppi adorino gli Zero Assoluto, Pezzali, gli Stadio o Venditti. O forse sì ma quando si vestono da indie non possono ammetterlo. Boh.
Sono d'accordo! Hai già detto tutto tu. Aggiungerei che il mondo indie avrebbe un grande potenziale, ma non lo riesce a gestire, finisce molto spesso solo per fornire o regalare la parte più interessante di intuizioni, idee e novità al mondo del pop che le "capitalizza" per rinnovarsi artisticamente e quindi commercialmente. Mi piacerebbe un mondo indie meno chiuso e in grado di venire fuori in modo autonomo, come è successo per gruppi inglesi, americani, ma in Italia sembra più difficile. L'urgenza di cui parli è l'elemento determinante.

E tu di urgenza ne trasmetti tanta nei testi ma sei anche un artista schivo, non hai mai cavalcato il tuo successo, anzi. Il tuo evitare certi appuntamenti fondamentali della nostra cultura musicale, Sanremo in primis, ha a che fare anche con la tutela di una tua presa di distanza dalle regole del pop?
Sì, Sanremo non mi ha mai convinto. Non l'ho nemmeno mai sentito così importante. Soprattutto non come una regola. Non ho subìto il suo carisma più di tanto. Forse anche perché da bambino non avevo la televisione in casa e quindi non sono cresciuto con il mito di questo mega appuntamento musicale degli italiani. Non mi sono mai nemmeno riconosciuto nel tipo di musica che si faceva e per certi versi si fa ancora lì. Anche se mi sono sempre reso conto che portando una cosa importante e di rottura come fece Vasco Rossi con "Vita spericolata" potevi davvero, e si potrebbe ancora, ribaltare tutto, far succedere qualcosa di veramente potente.

Peraltro i cantautori Sanremo lo hanno sempre snobbato, fino a quando non hanno inventato la paraculata del super ospite. Tu lo faresti mai il super ospite? Secondo me no.
Anche secondo me! Ma con l'esperienza debbo mettere in conto anche il "mai dire mai". Non sappiamo come si evolverà in futuro questo contesto televisivo. Potrebbe un giorno diventare più interessante? Chissà! C'è da dire che io ho sempre avuto difficoltà a sentirmi a mio agio in televisione. A maggior ragione in un contesto particolare come Sanremo, con quella pressione e quelle regole.

Abbiamo scritto una canzone su Bologna, l'ho cominciata io quindi era la mia Bologna, te l'ho fatta ascoltare e l'hai finita tu, facendola tua, mettendoci dentro la tua Bologna. Curioso io non abbia mai avuto il mito di Bologna, non abbia mai voluto fare il Dams, né letto i fumetti di Paz, ma l'abbia scoperta nei testi del mio gruppo italiano preferito, i Massimo Volume, scritto da Emidio Clementi, che è di Ascoli.
Non smetterò mai di ringraziarti, di esserti grato per questa canzone sulla mia città che mi è arrivata da te già molto precisa e soprattutto ispirata. Ancora di più mi piace il fatto che l'idea sia arrivata da un non bolognese!

Questo dimostra quanto a volte 'esserci nati' non è così importante, con tutto il rispetto per le radici e tutta la storia del localismo assolutamente caro agli emiliani, e agli italiani provinciali tutti, forse troppo. Ci sono città che veramente diventano luoghi dell'anima, della memoria, e quindi contemporaneamente la tua Bologna delle gite in moto con Lucio Dalla, dei fermenti studenteschi, del punk, è anche la mia, ossia quella di Aldrovandi, quella di Cofferati che boicotta la Love Parade, e che non ha più un colore o forse ne ha talmente tanti che non si distinguono più.
Questo simbolicamente rafforza il concetto che ho sempre espresso nelle interviste e di cui sono profondamente convinto, che la bellezza e la magia di Bologna dipenda soprattutto da questo incontro "obbligato" tra i bolognesi ed i tanti universitari che da secoli la vengono a vivere, contaminandola. In ogni epoca sono entrate culture diverse, idee, ispirazione ed energia nuova, dal resto dell'Italia e dall'Europa. Senza questo incontro costante Bologna sarebbe sicuramente solo una piccola città di provincia, probabilmente non particolarmente interessante. Nell'immaginario collettivo c'è Bologna "la rossa", la Bologna comunista... in realtà Bologna proprio grazie a questa contaminazione ha sempre avuto molti più colori e sfumature.

Sono un provinciale, sono nato e tornato a vivere a Voghera dopo dieci anni a Milano. Mi ha colpito ed emozionato sentirti raccontare la curiosità (per me quasi ansiosa), la fascinazione e anche l'ambiguità di Milano in una canzone in cui dici di invidiare chi ci vive. Milano è una canzone perfetta su Milano, guardacaso scritta da un bolognese!
Grazie! Penso che "Milano" più che una canzone su Milano sia una canzone sull'idea che si ha di questa città, dall'esterno, come simbolo, un'ipotesi alternativa del titolo era infatti "Come invidiare Milano". Negli anni '80 era una città che affascinava molto, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a fare i dischi, perché tutto stava cambiando e Milano da città di lavoro operaio, di fabbriche e di "grigio", di anni di piombo e Piazza Fontana, diventava la città dell'immagine, della leggerezza, del MadeinItaly, un nuovo linguaggio entra prepotentemente nel sociale... pensa a parole come "look", "yuppies", come "marketing": le abbiamo imparate allora. E poi le radio libere che si trasformano in grandi network. Milano spodestava Roma che fino a quel momento, con il monopolio di mamma Rai e, per quanto riguarda la musica, con la Rca ed i suoi cantautori storici, era il centro del mondo. Milano è una canzone che ho tentato di scrivere molte volte senza mai riuscirci, poi finalmente grazie all'amico e produttore indie Manuele Fusaroli e a Marco Vincenzi mi è arrivata, come è successo con te, un'idea ispirata che mi ha spinto ad andare avanti, lavorarci e farla diventare un brano chiave di questo album.

Hai dichiarato che quando hai scoperto di poter andare a ballare al Plastic e tornare a Bologna in due ore hai un po' fatto pace con l'idea di trasferirti nella 'capitale morale'. Io purtroppo l'ho capito dopo, quando Milano mi aveva già svuotato e abbastanza deluso. A un certo punto non capisci più se lavori per vivere a Milano o vivi per lavorarci. E non sempre ti basta scoprire una piazza, un caseggiato, un nuovo museo o un ristorante pazzesco, non sempre ti basta una storia d'amore o soltanto di sesso con qualcuno che prima o poi, lo sai, se ne andrà a Londra, a Bruxelles o tornerà a casa coi polmoni malconci. Io ci ho messo dieci anni a capirlo.
Come ti dicevo ho anche pensato di andarci a vivere, poi mi sono reso conto che da Bologna potevo andare e tornare in poco tempo e alla fine non l'ho fatto! L'idea di essere lontano e vicino allo stesso tempo, che è anche il titolo di una delle canzoni più belle di "Zooropa", Faraway, so close... è andata un po' cosí.
Quando ho cominciato negli anni '80 con i primi concerti ed i primi tour, è cominciata anche una mia nuova esperienza del "muoversi", ho messo a punto un mio strano ed ideale tipo di spostamento che poi ho praticato per tanti anni, fino che non è nato mio figlio. A Bologna in quel periodo c'erano due o tre posti che amavo frequentare con amici e musicisti la notte fino all'alba, quindi se finivo un concerto alle 23, ed era nel raggio dei 250/300 km, evitando alberghi ripartivo sempre subito, sapendo che sarei arrivato in tempo per continuare a vivere un pezzo della mia fantastica vita quotidiana, senza essermi perso quasi niente. In più avevo anche vissuto la grande emozione del concerto. Ero incontentabile! Facevo davvero il "pieno di vita"...

Il cosiddetto 'drittone'
Questo mi ha fatto scoprire anche il meccanismo contrario, cioè, potevo non perdere momenti della notte o dell'alba di Bologna e nella stessa notte vivermi un po' di musica del Plastic di Milano, dove incontravo spesso Alberto Fortis. Mi è sempre piaciuto guidare di notte pensando, ascoltando musica e i miei demo.

"Milano" è una canzone che sembra parlare di qualcosa che hai capito da tempo. Perché l'hai scritta ora?
Non ho mai scritto su Milano forse perché c'era già la Milano di Lucio...

E nel frattempo il Plastic storico (che anche tu chiami Plastique) ha chiuso. E addio London Loves dove ho imparato che potevi andare in discoteca più per cantare che per ballare, e la sua serata più bella che per me resta il 'Match a Paris', e mi sa che c'era anche negli anni '80. Ha chiuso come tutti i locali fighi di Milano e ha riaperto altrove, ma forse non è più la stessa cosa. Probabilmente non ci sono mai andato per evitare di scoprirlo...
Mi ricordo che avevo buttato giù delle idee di una canzone che citava in una strofa questo viaggio da Bologna al Plastic, ma poi non l'ho mai sviluppata. Era destino.

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L'articolo Luca Carboni - Da Bologna ad Alexander Platz di Alessandro Raina è apparso su Rockit.it il 2016-01-12 11:11:00

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