2022: i 100 nomi dell'anno della musica italiana (pagina 3)

Dagli Ada Oda a Yendry, passando per Verdena, Marracash e altri 96 nomi più o meno noti. Quelli che, nel bene e nel male, hanno segnato il 2022. Un'antologia completa e a tratti crudele di chi abbiamo ascoltato, e quindi in fondo di chi siamo stati, nei 12 mesi ormai in archivio

Artwork di Giulia Cortinovis
Artwork di Giulia Cortinovis

Cigno

Ci sono lavori che, per qualche motivo, non finiscono in classifica. "Nemmeno" nelle nostre. Per fortuna da quest'anno abbiamo un'anticlassifica, che è il posto perfetto per un disco come Morte e pianto rituale, nuovo disco del romano Cigno che riprende il titolo dal libro del 1958 dell’antropologo Ernesto de Martino, che analizzava il ruolo del lamento funebre come strumento di catarsi. Lui si chiama Diego Cignitti, ha 30 anni, insegna chitarra blues ed è nel giro già da un po'. Eppure con questo disco, accompagnato da un manifesto politico "antisistema" e da un'estetica molto cupa e altrettanto forte, ha spiazzato tutti. L'album trabocca di politica (e di indignazione), musicalmente tiene assieme diversi mondi che collegati lo sono eccome, ma che non è facile far coesistere. C'è l'elettronica e ci sono i riff, CSI, Tom Waits, Nine Inch Nails, industrial, distorsioni molto distorte, noise. Fatevi un giro. 

Coez

In questi giorni è impegnato con il tour di From The Rooftop 2, il progetto unplugged che ha collezionato sold out e consensi in posti tipo gli Arcimboldi e l'Auditorium a Roma. Le sue cose non ha mai smesso di farle bene, ed è utile fino a un certo punto ricordarlo visto il peso che ha da anni nella scena. Ci hanno molto colpito, invece, le parole che ha pronunciato qualche tempo fa sulla "musica di oggi": "Mainstream, Regardez Moi, Superbattito, L'ultima festa, Polaroid, ci metto anche Faccio un casino, c'è stato un gran momento per la musica italiana, guardando la classifica mi chiedo se stiamo sbagliando noi qualcosa o se non state più capendo un cazzo voi", così ha scritto. Prendiamolo sul serio, anche se lui è il primo ad ammettere che a volte ha solo voglia di cazzeggiare e provocare un po'. E commentiamolo. Quanto asserito suona, dal nostro punto di vista, molto simile a una cazzata. O meglio, si potrebbe dire in ogni momento e di ogni cosa del passato. Per questo è l'approccio esattamente opposto al nostro. Ciò detto mi colpisce molto che il cosiddetto itpop, decollato e defunto in tempi record, abbia già una sua storicizzazione. E comunque viva Silvano: con un dibattito culturale appiattito come quello attuale, chi ha ancora voglia di dare, e prendersi, qualche sberlone è un grande. 

Coma Cose

Dopo aver sentito la versione originale e beachboysiana di Fiamme negli occhi – ineditissimo che potete sentire durante la puntata di Venticinque dedicata al duo –, non solo non vedo l'ora di rivederli a Sanremo, ma spero che mi facciano sentire prima possibile i provini del brano che avranno in gara: L'addio. Se la volta scorsa Fausto e Francesca ci erano arrivati con fatica e impegno all'Ariston – indovinate dove ne parlano? Esatto, il link è quello sopra –, questa volta ci arrivano forti di un percorso che li mette al centro del nuovo pop italiano, quello bello. In mezzo hanno fatto due dischi veri, uno superlativo come Nostralgia e uno uscito da poco, forse ancora del tutto da metabolizzare, Un meraviglioso modo di salvarsi. Arrivato dopo un silenzio necessario, una riscoperta delle priorità e il tentativo di eliminare il rumore di fondo che nella vita di chi fa l'artista può essere assordante. Lo dico fin da subito: a Sanremo un po' il tifo per loro lo farò sicuro. 

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Cesare Cremonini

C'è chi può e chi non può. Poi c'è chi potrebbe, ma non vuole. E sono la maggioranza. Cesare Cremonini, invece, pur essendo tra i più "nazionalpopolari" dei nostri artisti, insomma uno che sul mercato ci sta e si sente pure a suo agio, è la dimostrazione che conformarsi è una scelta e non un obbligo dettato dai tempi. A febbraio è uscito La ragazza del futuro, quattro anni e mezzo dopo Possibili Scenari, il disco che lo ha consacrato definitivamente come la popstar più credibile e ambiziosa di casa nostra (e in questo modo, giustamente, lo scorso Sanremo lo ha celebrato). Il nuovo lavoro – sprovvisto, ahilui, di un pezzo destinato ad "assurgere" come Poetica – è del tutto fedele alla sua idea di musica. In costante evoluzione, eppure ancorata in maniera salda a dei valori e un "piacere" che tutti notano nei suoi componimenti. Dopo il boom giovanile dei Lunapop sono arrivate fasi molto diverse tra loro – non tutte capite, a loro tempo – dal cantautorato acustico di Maggese alla svolta elettro di Logico, e ora le suite, l'orchestralità. Un percorso tutt'altro che lineare ma coerente, con la musica (e non altre cazzate) al centro di tutto.

Dargen D'Amico

Dargen merita tutto: la ribalta, gli applausi, i complimenti, il cash. Quest'anno ne ha avuti tanti di tutto ciò, sapevamo che sarebbe andata così sin dall'annuncio del suo nome nel cast di Sanremo. Troppo bravo e troppo intelligente per non colpire nel segno, su un palcoscenico in cui talento e "faccia da chiurlo" sono due doti necessarie in ugual maniera. Dove si balla, in tal senso, era il pezzo perfetto: tamarro come solo Dargen sa essere, ma portatore di duplici e triplici letture (personalmente l'ho votata per il Premio della Critica), godereccio e ancorato nel presente. Chi vuole trovarci le giostre le avrà, chi la canta assieme ai bimbi si accomodi (senza spiegare loro il significato del verbo "fottersene"), chi conosce i vecchi lavori di Jacopo e la sua anima profondamente autoriale sorride pensando a come abbia fatto fessi tutti quanti. Poi è arrivato X Factor, dove pareva la scelta perfetta per via di quell'ironia così naturale e immediata, e invece ha funzionato fino a un certo punto. Ma Dargen è Dargen, qualsiasi pubblico abbia di fronte. 

Deda

Capita di rado di ascoltare un disco pieno di grandi voci – di quelle inconfondibili che hanno fatto la storia del rap e del soul italiano – eppure quasi criptarle, per perdersi dietro a dei beat con cui ci si sente un tutt’uno. È quel che accade con il ritorno sulla traccia – per lo meno con questo moniker – del guaglione Deda, e non ce ne vogliano Salmo, Neffa, Danno, Frah Quintale e gli altri 14 interpreti che si sono avvicendati sulle strumentali. Dentro a House Party c’è di tutto: l’r&b più smooth, il funk, il nu soul. Di sicuro il cuore c’entra, per chi è cresciuto pensando che SxM sia il disco più importante pubblicato in Italia negli ultimi 30 anni. Ma non è affatto una questione di nostalgia: il suono di Deda abbaglia, e il suo ritorno al rap dopo due decenni a contaminarsi con il jazz e la disco music – le esperienze di Katzuma, Okè e tutte le altre cose "fuori dai grandi giri" di questi anni non fanno che alimentarne la leggenda – mette un sacco di cose al loro posto. 

Degeneri

Quest'altro è un podcast, l'autore – perdonerete l'onanismo sfacciato – è chi scrive. A produrlo e pubblicarlo è Radio Festival Letteratura, ossia la piattaforma audio del festival letterario di Mantova, una rassegna bellissima che si tiene ogni anno sul finire dell'estate da 27 anni. Degeneri consta di sei puntate e prova in Italia un dibattito che da tempo rimbalza nel mondo della musica contemporanea internazionale, quello attorno alla presunta crisi dei generi musicali. Sempre più artisti rifiutano etichette e "denunciano" l'insufficienza delle classificazioni tradizionali. Un processo che, per molti aspetti, va di pari passo con la critica radicale che da una parte della società arriva verso molte delle "etichette" storicamente utilizzate per riunire e descrivere componenti essenziali del nostro stare al mondo, dalla biologia agli stili di vita o i consumi. Ci siamo dunque chiesti cosa sian davvero i generi, musicali e non, e che senso abbiano per capire e catalogare la realtà odierna, stravolta dal digitale. Cosa di cui vado molto fiero, dentro ci trovate tante delle voci che fanno ogni giorno Rockit e portano avanti il percorso della nuova musica italiana: artisti, giornalisti, discografici.

Delicatoni

Se non ci credete, venite a sentirli live il 4 febbraio durante il nostro Gran Galà dei CBCR a Milano. Così avrete la certezza di quanto groove sappiano emanare i Delicatoni, una delle novità più piacevoli e sorprendenti dell'anno. Hanno 25 anni o giù di lì, sono quattro amici veneti. Li avevamo incontrati su un prato delle Dolomiti in tempi non sospetti, quando ancora erano al primo EP autoprodotto, Margherita, e avevano un forte bisogno di credere in sé stessi e di qualcuno che facesse capire loro quant’è rara e bella la loro musica. Scapigliati, sparpagliati per il mondo, negli ultimi mesi hanno deciso che valeva la pena fare sul serio (ma sempre a modo loro) e si sono concentrati su un progetto che sta decollando. Jazz fresco, sperimentale, elettronico. Che sa di psych-pop, ma anche di soul. Delicatoni è un’esperienza, un’attitudine alla vita, un modo di essere, pensare, cantare. Delicatoni è il nuovo jazz in Italia: vulnerabile, emotivo, dolce, umano. 

Deriansky

Il primo album era stato una bella botta, il secondo album del rapper (più o meno) di Asian Fake, alla faccia di Caparezza, somiglia molto a un rivelazione. Si chiama Qonati ed è un Deriansky contro tutti, un lavoro super convincente, ancora più cupo e aggressivo rispetto al già cupo e aggressivo esordio con Qholla, con allucinanti strumentali industrial e barre violentissime. Hardcore nell’attitudine, capace di far riaffiorare la mai estinta dubstep – nonostante abbiano fatto di tutto per farci sperare il contrario – senza mai mettere da parte la “sensibilità” realmente hip hop di chi con le rime ha iniziato a 14 anni. Cosa ancora più interessante, Deriansky non è solo. Con lui è nata e sta crescendo una generazione di giovani artisti gravitanti attorno all'underground parmense da seguire con tutta l’attenzione del caso: gli amici e concittadini Deepho e Michael Mills che appaiono in dei feat., il visual designer NIC PARANOIA e il regista Giorgio Cassano, che lo affiancano nelle scelte estetiche, efficacissime. Più Deriansky disprezza, più noi lo apprezziamo. 

Andrea Laszlo De Simone

Un anno fa con Vivo gli avevamo consegnato un primo posto nella top 50 delle canzoni dell'anno che ci pareva inevitabile, per quanto avevamo amato quel pezzo. Quest'anno... lo abbiamo fatto di nuovo. Non era semplice, un bis del genere è una dichiarazione d'amore parecchio impegnativa. Eppure ci pare che in questo momento – grazie anche al modo che ha di vivere la musica e di prendersi i propri spazi – Laszlo faccia "un altro sport", finendo per rappresenta tutto ciò che cerchiamo nella musica in questo periodo storico. I nostri giorni, il solo brano che ha pubblicato nel 2022, è l’altra faccia di Vivo: due canzoni che assieme celebrano l'esistenza nei suoi aspetti più puri, ma anche in quelli più tragici. Laszlo fa cinema con la sua musica grazie all'utilizzo dei fiati, dei cori, degli archi e delle percussioni orchestrali per un arrangiamento che ricorda il periodo spaghetti western di Ennio Morricone. Un artista raro, fuori dal tempo e dal mercato, che fa musica stupenda. Siamo fortunati a potercelo godere.

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L'articolo 2022: i 100 nomi dell'anno della musica italiana di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2022-12-30 09:03:00

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