L'avvelenata: Sanremo è ovunque, ma fuori il nulla dilaga

Un po' di domande prima di Sanremo 2024: riuscirà questo festival esagerato a scampare all'omologazione? Esiste vita fuori da Sanremo? Se hai una bestia che caga oro, è possibile resistere alla tentazione di darle del lassativo? Quanto costa una casa ad Arma di Taggia?

Amadeus come Atreju in ossequio ai tempi che corrono - creatività pazzesca di Vittorio Comand e Beatrice Arrate
Amadeus come Atreju in ossequio ai tempi che corrono - creatività pazzesca di Vittorio Comand e Beatrice Arrate

Tra attese messianiche, gente eccitata, gente che fa cose che non si spiegano, anche quest'anno quei giorni sono arrivati. Sono state due settimane di quiete agitata per la nostra discografia. Non sono usciti o quasi nuovi dischi dopo la deflagrazione dei Dogo, in giro c'era poco. Una sorta di Dry January che non segue però i bagordi natalizi, ma precede l'annuale mega sbornia rivierasca, i cinque giorni in cui la musica italiana si scopre il centro di tutto, fa sogni di gloria e sistema qualche bilancio.

Sono settimane in cui si cercano sponsor, si cercano case nei comuni tra Ventimiglia e Arma di Taggia, si cercano contatti tra i giornali – anche se non contiamo più un cazzo, ma grazie della considerazione –, si cercano disperatamente idee per farsi notare. E farsi notare a Carnevale non è mai facile. C'è chi ci deve andare per forza e finge che gli pesa. Chi non ha nulla da fare, ma va lì lo stesso a fare cose che farebbe molto più comodamente a casa propria (sono tantissimi in quest'ultima categoria). Chi è da settimane che è afflitto da una FOMO da tachicardia. Chi comincia a sperimentare invece l'euforia della JOMO, la Joy Of Missing Out, la felicità di non esserci.

Quest'anno Amadeus è stato un po' meno incontinente dell'anno scorso nell'annuncismo che ha preceduto il Festival. Per l'amor di Dio, era comunque al Tg1 ogni due per tre, e quando non c'era lui c'era per interposta persona grazie a Fiorello. Ma, al suo quinto mandato come Rumor e Fanfani, il direttore artistico sa di aver già vinto.

Il problema è che in questi anni a Sanremo vincere non è bastato. Si è voluto stravincere (guardate qua, se non siete convinti). Comprensibile: in tempi di vacche magre, quando hai una bestia che caga pepite d'oro è difficile resistere alla tentazione di darle il lassativo. Il Festival è talmente imprescindibile per tutti gli attori in gioco, è talmente il place to be che pur di esserci si accetta qualsiasi condizione. Tipo quella di non andare sulle tv delle reti concorrenti nelle settimane precedenti l'evento.

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Solo che nel tentativo di spostare ancora più in là la propria apoteosi (in termini di share e inserzioni), mentre continua a flirtare con il meme di sè stesso in maniera più o meno consapevole, il Festival rischia di perdere il controllo ed entrare nella fase del parossismo. Gli scorsi Sanremi hanno tracciato un solco, non ci sarà alcuna decrescita felice. Il contrario. Trenta artisti, che diventano il doppio o forse il triplo nella serata delle cover. Praticamente saranno tutti a Sanremo – come ci stiano tutti lì dentro con i rispettivi staff, in alcuni casi anche parecchio "di peso", non è chiaro –, un bel via vai di gente e dei rispettivi pubblici social, che garantisce l'effetto moltiplicazione ma anche l'effetto "sotto al prossimo": chi è destinato a rimanere davvero nella memoria in mezzo a tutte queste esibizioni?

C'è poi la questione degli sponsor, decisamente rilevante. Con gli share esorbitanti dell'anno scorso, uniti agli orari da fine pena mai previsti per questa edizione, la raccolta si prospetta miracolosa. Sanremo è diventato il nostro SuperBowl, solo con Arisa al posto di Taylor Swift e al posto di Tom Brady c'è Sinner, ehm no lui non ci va. Tutti i brand vogliono esserci, si preparano per mesi, chiedono alle agenzie di inventarsi format, di farli partecipare alla festa. Tra il Naviglio e Gae Aulenti a Milano la tempesta di cervelli dei pubblicitari in azione fa friggere l'aria. video frame placeholder

Gli investimenti sono portentosi, metà dei bilanci di marketing possono andarsene in questa settimana. Chiunque abbia un piede dentro ci guadagna. Prendiamo il caso del Fantasanremo: nato una manciata di anni fa come un giochino tra amici (a volte divertente, a volte un po' fastidioso) è a sua volta finito in mano a un'agenzia milanese, che l'ha reso una corazzata. Oggi vende i propri bonus a decine o centinaia (avete capito bene...) di migliaia di baudi, ehm no scusate euro. Ha un parterre di sponsor che farebbe invidia a chiunque. "Non esiste oggi in Italia una simile piattaforma, che ti permetta di parlare a milioni di persone di tutte le generazioni contemporaneamente", mi ha spiegato un importante manager che si occupa di marketing. Nel giro di due anni si può passare dalle gag al bar a fatturati milionari: il mercato oggi funziona così

 

Bella per loro e per chi, a differenza nostra, la "fresca" la sa far ballare davvero (semba una rosicata? dite?). Il problema semmai è un altro. E sta in quella cosa che dovrebbe essere l'unica cosa che conta, anche se conta sempre meno. La musica. O meglio, le canzoni. I 30 brani – ma cos'è, un'ordalia? – in gara faranno i soliti numerici epici, grazie al boost delle radio, delle playlist su Spotify che spingono verso l'alto tutti i pezzi anche quelli più deboli e degli ascolti massicci di bimbi e genitori disperati. Lo scorso anno Lazza, Marco Mengoni e Mr. Rain con i loro pezzi sanremesi sono stati i tre artisti più ascoltati dell'anno, scalzando dal podio i vari rapper e tormentonisti di professione (spesso ormai le due categorie coincidono). Quest'anno non dovrebbe andare diversamente, si tratta solo di capire quali canzoni emergeranno dal magma (non c'è una vincitrice designata come avvenuto negli ultimi due anni). Poi ripartità la ridda dei comunicati stampa trionfalistici: 19 miliardi di stream, 8 platini e 7 ori, 22 sold out. Ecco a cosa è servito studiare matematica al liceo. 

Già, ma a quale prezzo? Messe una vicina all'altro (lo ripetiamo, abbiamo fatto un solo ascolto: vale quel che vale, ma un'indicazione di massima la dà), le canzoni di Sanremo suonano tanto simili. Su 30 ce ne saranno 10 massimo che si discostano molto per bpm e dinamica del pezzo. La "canzone sanremese", insomma, gode di ottima saluta. Solo che non è nemmeno lontana parente di quel tipo di brano che fino a pochi anni fa, anche bendati e con le orecchie tappate, avremmo potuto riconoscere come "canzone sanremese". O meglio, le tematiche affrontate (salvo qualche lodevole eccezione tipo Dargen) sono sempre le stesse – amore, tormenti, tormenti d'amore –, ma il suono è completamente diverso.

La "canzone sanremese" di oggi è una canzone da radio. Un pezzo da heavy rotation di una qualunque radio commerciale quando l'estate si avvicina (quella della "destagionalizzazione" della musica sarebbe un altro tema da affrontare). Amadeus ha sempre detto di non essersi mai permesso di proporre modifiche a brani e che ha sempre lasciato libertà totale agli artisti. Speriamo invece fortemente che quest'anno l'abbia fatto. Perché altrimenti vuol dire che gli artisti, e chi lavora con loro, pensano ormai con una testa sola, che finisce per partorire sempre la stessa cosa. Quella che funziona, e che permetterà di passare all'incasso.

Oggi tutto è misurabile. Se nel successo rimane una quota d'imponderabilità, è anche vero che si sa perfettamente cosa funziona e cosa no, si possono analizzare miliardi di dati, ragionare su infinite case history. Il rischio di omologazione è enorme. E il cast di Sanremo sta lì a dimostrarlo. Non rimpiangiamo nulla dell'epopea degli Zarrillo o peggio del periodo Valerio Scanu, ma non possiamo fare a meno di notare un conformismo dilagante che è l'esatto contrario della discografia che vorremmo.

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Anche perché ormai Sanremo non dura cinque giorni, ma tutto l'anno. I suoi artisti sono ovunque per mesi dopo l'evento, i suoi pezzi hanno soppiantato Baby K a radio lido. Tutti vogliono prendere un pezzo dell'Ariston, come col Muro di Berlino negli anni '90. Un tempo era perfettamente chiara la distinzione tra il cast di Sanremo, quello del Primo Maggio e quello di Battiti Live (o qualunque altro contenitore tv estivo vi venga in mente, vedi Festivalbar). Oggi no, cast e pubblici sono perfettamente sovrapponibili. 

E quegli stessi artisti sono ambitissimi a tutti i festival grandi o medio grandi che – per fortuna – pullulano durante i mesi estivi nella nostra penisola. E che spesso hanno line up molto simili tra loro. Non crediamo che la creatività non possa albergare nel mainstream, anche se siamo felici di vedere che nell'ambito del cosiddetto underground si muovano energie fresche e belle convinte. Ma abbiamo molta paura che questa ricerca di una consacrazione nazionalpopolare a tutti i costi finisca per mortificare le differenze e l'unicità di ciascun percorso. 

Dunque che fare? Un cazzo, nulla. Lanciamo nell'etere la nostra "avvelenata" e torniamo al nostro posto davanti alla tv (che il primo appartamento libero sotto i 1000 euro in Liguria in quella settimana è ad Alessandria). Guarderemo Sanremo, come tutti, ne discuteremo, ci appassioneremo alle canzoni e sopporteremo le varie cazzate che fanno da contorno. Sappiamo benissimo che non si può fermare il vento, ma vogliamo concederci il privilegio di fargli perdere un po' di tempo. 

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L'articolo L'avvelenata: Sanremo è ovunque, ma fuori il nulla dilaga di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-02-01 11:22:00

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