Oremèta: il nostro rap viene dal blues e dal palco di un teatro

Cosa fanno un armonicista busker, un’attrice e un batterista rinchiusi nello stesso appartamento romano durante la quarantena? Un disco, naturalmente. Nasce così "Saudade", un diario del cuore messo in rima

Gli Orèmeta: il trio romano ha appena pubblicato il suo primo album 'Saudade'
Gli Orèmeta: il trio romano ha appena pubblicato il suo primo album 'Saudade'

Gli Oremèta sono un gruppo formato da tre elementi: Dario, Chiara e Giulio, rispettivamente rapper e armonicista, attrice e percussionista. Il loro disco d’esordio è stato registrato tra le quattro mura di casa, all’ultimo piano in uno di quei vecchi palazzi nei quali, le notti in cui il maestrale soffia forte, si può sentire la risacca delle onde nel tremolio delle pareti. “La pandemia ci ha chiusi dentro o ha chiuso il mondo fuori, dipende dai punti di vista, ed è in questo spazio ristretto che noi ci siamo trovati, vivendo nello stesso condominio a Ostia Lido”.

Negli ultimi mesi Dario, Giulio e Chiara hanno condiviso ogni momento del giorno e della notte, in questa quotidianità sono nati i brani del loro primo lavoro. Saudade, edito per l'etichetta Glory Hole, mescola le atmosfere della musica blues con le barre di un hip-hop "militante" dalla matrice anni '90. Una band nata durante il lockdown perché, come ci racconteranno, “suonare è stato l’unico un modo per continuare a sentirsi vivi”.

Venite tutti da percorsi musicali differenti. Raccontateceli.

Dario: Io ho scoperto la musica in viaggio. Terminato il liceo ho trascorso un periodo lavorando in Spagna, convivevo con un gruppo di ragazzi e ragazze provenienti da diversi paesi del mondo. Alcuni membri del gruppo erano soliti suonare in strada, durante questo periodo ho contribuito aggiungendo le mie strofe alle loro composizioni. Nel corso dei mesi ho anche portato avanti lo studio dell'armonica blues. Tornato a Roma, la mia città natale, ho continuato ad amare e a seguire l'arte di strada, avvicinandomi inoltre ai collettivi romani di Poetry Slam, che, con le loro iniziative, hanno contribuito alla mia formazione come scrittore.

Giulio: Ho studiato come batterista al Saint Louis College of Music, in seguito ho portato avanti nel corso degli anni sia il mio percorso da musicista live, insieme a diverse band, sia il mio percorso da produttore, componendo strumentali e musiche originali per il teatro. Chiara, invece, in realtà ha un percorso tutto teatrale. Parlando di musica possiamo dire giusto che ha studiato canto durante l’adolescenza, ma le sue competenze si sono fermate a un livello superficiale. Oggi è un'attrice e un’insegnante di teatro, strimpella l'ukulele ed è tornata a studiare, questa volta con un diverso obiettivo.

Com’è possibile che l’incrocio tra un armonicista busker, la voce jazz di un’attrice e un percussionista classico sia sfociato in un progetto “rap”?

Dario: Ci siamo abituati a pensare che il rap debba ricalcare determinati stereotipi per essere tale, ma in verità il rap è semplicemente un diverso modo di parlare, un diverso modo di pronunciare le parole, e come tale è liquido, si adatta. Noi tre siamo vincolati gli uni agli altri, il rap può urlare tra le scariche di una batteria per poi delicatamente sussurrare, può piangere le nostre amarezze e subito dopo cantare le nostre superficialità. Il nostro intento è fondere le arti, mescolare le origini, infrangere le barriere e calpestare i preconcetti di questo e di ogni altro genere. Ma il rap è quello che si presta meglio.

Dario, Giulio e Chiara
Dario, Giulio e Chiara

All’interno dell’album si percepisce un valore “di strada” che va oltre il concetto di busking e assume un tono volutamente politico?

Dario: Sì. Pensiamo che il rap sia ancora uno strumento potente, e che possa ancora raccontare e informare. Il nostro è un album politico perché parlare delle diversità del mondo e delle migrazioni nell'Italia attuale è un atto politico. Guardandoci intorno possiamo vedere il rap fondersi sempre più spesso con il capitalismo e il consumismo in una simbiosi quasi irreversibile: non ci piace, e lo manifestiamo. Pensiamo ancora che il rap debba prima di tutto raccontare, raccontare sia le ingiustizie che le bellezze, proprio perché parlarne le rende più vere.

Di sicuro vi piace l’hip-hop old school e la musica black. Quali sono le vostre influenze, i dischi che ascoltate a casa?

Giulio: Chiara è una di quelle che ascolta la radio. Radio a casa, radio in macchina, radio ovunque. Adora il cantautorato classico di Battiato, De Andrè, De Gregori, ma è particolarmente stregata anche dalla musica gracchiante anni 50 e 60: Mina, Luigi Tenco, Fred Buscaglione. Nonostante ciò, il reggae è uno dei suoi generi preferiti, dovreste vederla scatenarsi a un concerto dancehall. Dario è cresciuto tra la poetica di Camera a Sud di Vinicio Capossela e i racconti punk degli In the Panchine. Durante la scrittura dell'album, si è legato moltissimo alla musica sudamericana: Canserbero, Sintese e Murica Sujao. A oggi continua ad ascoltare Joey Badass, Gemello, Earl Sweatshirt, Buena Vista Social Club, Fatoumata Diawara e naturalmente, suonando l'armonica, accompagna i nostri pomeriggi avvolgendoci in diverse sfumature di blues. Io sono cresciuto tra i vecchi vinili e le cassette che risuonavano in casa. Dall'elettronica anni '70 degli ABBA, al progressive rock degli Yes o dei King Krimson. Sono un amante dell'heavy metal, ho iniziato da piccolissimo suonando sul materasso i pezzi degli Iron Maiden e dei Megadeth, crescendo ho scoperto l'elettronica moderna di Aphex Twin e Flying Lotus. Dirò una banalità, non ho un genere preferito. Amo la musica a 360 gradi, purché sia di qualità.

Giulio, sullo sfondo, e Dario, in primo piano
Giulio, sullo sfondo, e Dario, in primo piano

I testi sono principalmente opera di Dario, come sono nati?

Giulio: I testi sono per la maggior parte pagine di diario, riadattate in rima. Durante la composizione Dario ha riesumato ricordi di esperienze vissute, lasciando però libero sfogo anche ai flussi di coscienza che nascevano nel presente. Ciò ha dato vita a un insieme di dipinti in parole che vogliono avvolgere l'ascoltatore mostrandogli fisicamente luoghi e volti, proprio perché questi testi sono nati dall'osservazione e dall'ammirazione del mondo nelle sue diversità. Nonostante le parole siano sue, durante il processo creativo vengono condivise sempre con noi. Un processo che avviene rigorosamente su carta, serve per mescolare le nostre esperienze e far emergere i concetti a cui teniamo come trio.

Come siete arrivati a vivere tutti insieme sotto lo stesso tetto? È stato fondamentale per la nascita del progetto?

Dario: Appena abbiamo avvertito puzza di quarantena, la promessa è stata immediata. Abbiamo condiviso il buongiorno e la buonanotte, il buon pranzo e la buona cena. La casa base è quella di Chiara e Giulio, un superattico piccolo piccolo tra le nuvole di Ostia. La convivenza è stata fondamentale, come lo è stato il lockdown, la reclusione forzata. Spesso ci siamo posti questa domanda: “come sarebbe stato se”. La risposta non l'abbiamo ancora trovata. Ma sicuramente questa residenza artistica ci ha aiutato ad affrontare il periodo.

Giulio Gaigher, batterista, e Chiara Pisa, cantante e attrice
Giulio Gaigher, batterista, e Chiara Pisa, cantante e attrice

Immagino le registrazioni siamo avvenute a casa. E i featuring a distanza.

Dario: Sì, il disco è stato registrato interamente dentro casa. I featuring sono stati un bel modo di ridurre la distanza con amici artisti che volevano contribuire a ciò che stavamo creando. Giulio spesso imposta la struttura partendo da un tappeto ritmico di batteria, che in partenza può definire la sonorità del brano, in seguito spesso ci ritroviamo in una sessione d’improvvisazione musicale, servendoci di chitarra, armonica e software. La parte della scrittura del testo invece, come già detto, viene affrontata su carta: in fondo siamo dei grandi nostalgici.

Il titolo è dovuto al lockdown?

Dario: Saudade è un termine che non ha traduzione diretta in altre lingue, non è una parola che puoi spogliare e inchiodare a una definizione. Si dice che per capirne il significato (o uno dei significati) bisogna prima provare quell'emozione, e solamente così, sentendocela addosso, potremmo poi dargli un "nome". È come se fosse un sentimento che non ha mai accettato di farsi parola, e quindi è rimasto a metà strada. Per noi questa parola vuol dire "nostalgia senza tristezza", ed è ciò che abbiamo provato durante la composizione di questo nostro disco. Il lockdown è stato fondamentale, ma forse il titolo di quest’album racconta un sentimento senza tempo, che in questi giorni forse ha trovato un’ulteriore definizione, ma che in verità ci accompagna e ci accompagnerà sempre.

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L'articolo Oremèta: il nostro rap viene dal blues e dal palco di un teatro di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2021-01-25 14:03:00

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