Appino
Il testamento 2013 - Cantautoriale, Rock

Il testamento

Andrea Appino, una persona che vale la pena conoscere. Primascelta

io prego molto, ma molto di più / di chi si inginocchia e prega il soffitto / e passo ore, giorni, mesi a pensare le stelle / e non guardarle mai / ho paura di vederlo spuntare / sorride e dice “Appino, che cazzo fai?”/

Io Andrea non lo conosco.
Pensavo invece di conoscere piuttosto bene Appino, il frontman, leader e voce degli Zen Circus, perchè l'ho visto dal vivo milioni di volte, ho imparato a memoria i brani del suo gruppo, perchè in sostanza è entrato nel novero di quei nomi che hanno anche una certa fama, ma li senti vicini, sono parte del tuo vissuto, è gente con cui ti potresti prendere delle sbronze atomiche e che non riesci a considerare delle... star.

L'ho sempre considerato un punk, Appino, uno vero, tutto sostanza, di quelli che capisci che fanno ciò che fanno perchè non potrebbero fare altro, a costo di apparire e vivere sgangherati, gente che riesce a raccontarti l'eroina facendoti sbellicare ma restituendone tutta la tragicità (si, sto parlando di “Canzone di Natale”).

Ora sono disorientato perchè Andrea si è ripreso l'Appino che conoscevo e ci si è messo davanti, non che questo non sia vero... anzi, lo è molto di più e ciò non può che disorientare. Innanzitutto sorprende quanto poco ci sia degli Zen Circus in questo Testamento, quanto poco sia punk nel senso comune del termine (e per questo forse ancora più punk a livello ideale). "Il Testamento" è un disco che fa male, che ti blandisce per poi aggredirti e lasciarti tramortito, entrarci non è facile e anzi, l'impressione iniziale riesce persino a essere sgradevole: i suoni e la produzione di Favero sono talmente netti da avvicinarlo più al Teatro degli Orrori che agli Zen Circus, in un ibrido che fatica a convincere.
È come se fosse necessario oltrepassare Favero per trovare Appino e poi scartare di lato a osservarli mentre danno forma a qualcosa di poco definibile, ma improvvisamente sensato, consegnandoci un Autore (con la maiuscola) piuttosto che un cantautore.

La chiave di tutto sono i testi: capire che sono importanti e che vanno approfonditi è un attimo, il resto vien da sé e, se fino a poco prima, al sentire i chitarroni e il drumming devastante, non potevi che immaginare una voce growl o le urla di un Capovilla, se certi brani ti riportavano alla mente una certa, classica “canzone rock all'italiana”, ecco che quella diventa LA musica di Andrea Appino, quella che lui ha sentito naturalmente legata alle cose che aveva da raccontarti, cose tutt'altro che leggere e così personali da essere disturbanti.

Non si esce vivi dagli anni 80” diceva qualcuno ed è come se il comun denominatore di questo album fosse proprio quel decennio, culla del male odierno: l'infanzia difficile di Appino e di un intero popolo incapace di rialzarsi dallo scintillante piattume culturale, dalla promessa di un successo vacuo ma colorato, dallo strapotere del denaro e della pubblicità, cui tutto è dovuto e a cui tutto viene sacrificato, con ore di lavoro inutile a divorare il tempo per vivere o per viaggiare (“e pensi sempre meno alla rivoluzione / non ti sei accorto infatti, ti è passata accanto / senza neanche un morto, nemmeno un pianto /” “1983”).

Prendiamo la splendida e dylaniata “La Festa della liberazione”, sembra fatta apposta per essere cantata con la chitarra di fronte a un falò in spiaggia, ma contiene versi tipo “e questi bambini, pimpanti e codardi / che hanno già perso la verginità / l’imene rotto della meraviglia nessuna scintilla, una sega a metà /” e come possono non venirti in mente gli anni passati tra merendine preconfezionate e TV spazzatura a sverginarti il cervello? “certo era tutta colpa della violenza in tv / ma si può dire che davanti mi ci piazzavi tu /” (“Solo gli stronzi muoiono”) e ancora: “nella periferia- si svegliano i plebei / che un tempo erano forti e curiosi come noi / invece adesso son figli soltanto della pubblicità” (“Che il lupo cattivo vegli su di te”).

Ci sono la famiglia e la religione, due gusci svuotati di senso dai quali però è impossibile uscire senza farsi male, l'amore che ben lungi dall'essere romantico si rivela disperata azione/reazione a una realtà soffocante, medicina che si rivela concausa del male stesso e che non può che rimandare al De Andrè del "Testamento di Tito" (guarda caso): “Poi la voglia svanisce e il figlio rimane / e tanti ne uccide la fame / Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore: ma non ho creato dolore” un dolore che non si è scelto e a cui è impossibile fuggire se non nascondendosi nel buio, che, se anche fa paura, può rivelarsi un prezioso alleato con cui parlare e capire “che la notte era un posto fatto apposta per noi / per noi bambini che il giorno non ci troviamo mai” (“Solo gli stronzi muoiono”), bambini che credono a tutto ciò che vedono anche quando crescono e diventano uomini “con la faccia di chi andrà lontano” e si trovano a vagare incerti “nella festa triste del paese nuovo” (“1983”).

Rabbia, compassione, consapevolezza e saggezza: i brani del Testamento colpiscono in egual misura, qualcuno prima (quelli più acustici e maggiormente vicini all'Appino-Zen), qualcuno dopo (quelli in cui le parole si nascondono nel marasma hard scatenato da Favero e compagnia). Non ho idea di quanti anni siano passati dall'ultima volta in cui mi è capitato di utilizzare la parola “crossover” per definire un album, ma prendendola nel suo senso letterale, “incrocio”, non posso che (ri)trovarla calzante: "Il Testamento" è un incrociarsi di musiche e vite, di presente e di passato, di individui e generazioni, è l'incrocio tra Appino e Andrea, tra il personaggio e una persona che vale la pena conoscere, fosse anche solo leggendo tra le righe delle sue ultime, metaforiche disposizioni terrene.

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